Di fronte alla recente escalation militare sarebbe il caso di aprire un dibattito sulla necessita’ di rivedere il nostro impegno militare
Di Alessio Fratticcioli (scritto per Orizzonti Nuovi, aprile 2010, pag. 19)
Alla fine degli anni ‘70, il Presidente americano Carter e il suo consigliere per la sicurezza nazionale Brzezinski diedero inizio all’operazione “Cyclone”, volta a reclutare, finanziare, armare e addestrare islamisti radicali e farne una forza terrorista e militare operante in Afghanistan. Lo scopo, scrive Brzezinski nel suo libro di memorie, era di “attirare i russi nella trappola afgana” e dargli “il loro Vietnam”.
Ritiratesi le truppe sovietiche, negli anni novanta a Kabul prendono il potere i talebani, cioe’ i fondamentalisti islamici nati grazie ai soldi, alle armi e all’intelligence della CIA, che pero’ non intendono sottostare ai diktat americani. Nell’ottobre 2001 gli Stati Uniti guidano una coalizione che interviene militarmente in Afghanistan. La ragione dichiarata era quella di rovesciare il regime dei talebani e catturare Osama bin Laden, vivo o morto. In realta’, l’11 settembre ha fornito il causus belli che il Pentagono andava cercando, secondo un piano piu’ generale prestabilito anni prima. Il vero scopo della guerra, probabilmente, va ricercato nella visione strategica di Brzezinski, il quale ritiene che «chi riuscirà a controllare il petrolio e il metano del Caspio controllerà il mondo». Questa strategia e’ alla base della «dottrina Clinton», che intendeva estendere il controllo americano alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale sulla scia di quanto fatto con le tre repubbliche baltiche, ma non differisce se non nelle sfumature da quella di tutte le altre amministrazioni americane degli ultimi decenni. Bush ha scatenato dunque una guerra per il controllo mondiale delle fonti primarie di energia, un panorama nel quale il valore strategico dell’Afghanistan, oltre ai suoi giacimenti di uranio ed altri minerali, è legato ai gasdotti, ai corridoi commerciali e alla sua posizione geografica, incuneato com’e’ tra Iran, Pakistan, Xinjiang cinese e un po’ piu’ a nord Russia.
Anche la politica estera di Obama si sta modellando sullo stesso copione. La “dottrina Obama” e’ “una forma di realismo che non ha paura di dispiegare il potere americano ma allo stesso tempo e’ conscio che il suo uso va temperato”, ha riassunto E.J. Dionne il 16 aprile 2009 in un editoriale del Washington Post. “Questo puo’ essere un segno di discontinuita’ rispetto allo stile di George W. Bush”, continua Dionne, “ma e’ nel solco delle tradizioni di Roosevelt, Truman e Bush padre. Obama insiste nel sostenere che non abbiamo risorse illimitate per fare quello che vogliamo. Dobbiamo fare delle scelte. E’ cosi’ che va spiegata l’escalation in Afghanistan accompagnata al graduale ritiro dall’Iraq”.
La “dottrina Obama” e’ un cambiamento “di stile” rispetto a quella del suo predecessore, ma in linea con quella, tra gli altri, di Bush padre. Stiamo parlando di politiche aggressive e militariste che mirano a conservare ed estendere l’egemonia globale americana con la forza delle armi.
Ma otto anni di guerra e centomila soldati Nato non sono bastati ad annientare la guerriglia dei ribelli afghani, che continuano a controllare i tre quarti del Paese, nonostante, secondo gli stessi comandi militari Nato, i talebani in vita sarebbero oggi solo 7 o 11mila. Nonostante cio’, in questi ultimi mesi siamo di fronte a una vera e propria escalation militare. Con il pretesto di voler stanare i talebani che cercano rifugio nelle zone pashtun del Pakistan, gli USA hanno bombardato a tappeto anche alcune regioni pachistane uccidendo migliaia di civili innocenti. Il tutto mentre lo stesso generale Stanley McChrystal ha ammesso che i bombardamenti aerei aiutano gli insorgenti a reclutare nuovi guerriglieri.
Addirittura, il 13 febbraio scorso e’ partita la piu’ importante offensiva dal 2001, “Operation Moshtarak”, nella provincia di Helmand, nel sud del paese. Questo attacco ha provocato immediatamente decine di vittime civili e migliaia di rifugiati. Gino Strada sostiene che “si stanno compiendo crimini di guerra inauditi” e massacri di civili. Queste operazioni vengono svolte in cooperazione con il Governo Karzai, un regime corrotto dominato da signori della guerra e fondamentalisti.
Di fronte a questa situazione, che sarebbe ridicola se non fosse profondamente tragica, l’Italia continua a prestare agli USA un contingente di truppe numericamente minore solo a quello di Gran Bretagna, Germania e Francia, per una spesa di circa 51 milioni di euro al mese a carico del contribuente italiano. Questo nonostante la missione sembri essere in sempre piu’ stridente contrasto con l’articolo 11 della Costituzione. Inoltre, secondo Andrea Nativi, il piu’ autorevole analista militare italiano, il conflitto potrebbe continuare per anni, con al massimo una “tenue prospettiva di successo”.
Se questo e’ il quadro, in Italia il minimo che si dovrebbe fare, come scriveva Antonio Di Pietro nel suo blog il settembre scorso, e’ “aprire al più presto in Parlamento e nel Paese un dibattito serio ed una riflessione approfondita su questo interrogativo di fondo: chi stiamo difendendo in Afghanistan? Qual è il reale scenario politico di quel Paese? Insomma, che ci facciamo ancora in Afghanistan? E fino a quando dobbiamo restarci?”