L’unilateralismo di Trump ha indebolito il rapporto con gli alleati, permettendo agli avversari di approfittarne. Ma per Biden ripristinare la leadership americana non sarà semplice
(Asiablog.it) — Le elezioni americane hanno decretato un vincitore. Si tratta di Joe Biden, senatore di lungo corso ed ex vicepresidente di Barack Obama. La sua vittoria gli è valsa ben 306 grandi elettori, contro i 232 del suo avversario, Donald Trump. Quest’ultimo, dal canto suo, sembrerebbe essersi convinto dell’irregolarità del procedimento elettorale, nonostante non sussistano prove di quanto affermi.
Il presidente uscente lascia un Paese profondamente diviso e la cui leadership mondiale è messa sempre piu in discussione. Nei suoi quattro anni da Commander in Chief, Trump si è approcciato alla politica estera in modo diverso rispetto ai suoi predecessori, ma il principio dell’America First non ha fatto altro che favorire la proliferazione di piccoli e grandi centri di potere alternativi.
La politica estera di Trump: personalismo e incertezza
Prima di addentrarsi in ogni discussione circa la politica estera, bisogna fissare una volta per tutte che la politica estera è terreno di condivisione ed è dunque errato dipingere il presidente come un “dictator“, un uomo che può dire e fare ogni cosa. Il presidente degli Stati Uniti ha meno poteri di quelli che gli vengono attribuiti da alcuni commenatori. Basti pensare che esistono diverse istituzioni e diversi apparati che possono bypassarlo: le due camere, i Servizi, il Dipartimento di Stato, il Tesoro, l’establishment repubblicano e alcune potenti organizzazioni economiche. È per questo che associare le mosse di un Paese, per di più se democratico, ad un solo uomo, significa ignorare la storia e la geografia di quella entità. Il leader rappresenta solo il centro di potere dominante.
Detto questo, l’orientamento assunto dall’ultima amministrazione a stelle e strisce è stato spavaldo e scostante, proprio come il carattere del suo presidente. Innanzitutto Trump ha abbandonato l’approccio multilaterale alla base della politica estera statunitense da oltre settant’anni, basata su un’insieme di istituzioni nella cui costruzione e nel cui funzionamento il ruolo di Washington è stato centrale.
Gli esempi in questo senso si sprecano. Trump ha messo in discussione più volte la NATO, definendola «obsoleta», denunciando l’«iniqua» ripartizione degli oneri (il cosiddetto burden sharing) e accusando gli stati europei di approfittarsi della protezione americana. Si è ritirato dall’accordo di Parigi sul clima, dall’accordo con l’Iran sul nucleare e dal TPP (Partnerariato Trans-Pacifico), uno dei più grandi accordi commerciali mai sottoscritto in America. Ha indebolito la diplomazia statunitense, non nominando nuovi diplomatici americani in alcuni Paesi importanti e facendo nomine controverse in altri. Ha puntato su una politica iper-personalistica, basata più sull’intuito che sull’intelligence, credendo di poter mettere fine da solo a crisi decennali, come nel caso della Corea del Nord, il cui arsenale nucleare è invece oggi più largo di quanto lo era prima dello storico vertice con Kim Jong-un sull’isola di Sentosa, a Singapore, nel 2018.
Inoltre, il facoltoso imprenditore di New York è riuscito a smobilitare parte delle truppe statunitensi in punti sensibili per la politica internazionale, a partire dalla Siria: una pugnalata alle spalle dell’alleato curdo nonché un errore strategico, in quanto la presenza americana sbarrava il passo alle mire turche e russe. Ulteriore elemento destabilizzante è stato l’assassinio del potente generale iraniano Qasem Suleimani, parte di un più ampio piano mirante a indebolire l’influenza della Repubbica islamica nella regione: l’ennesimo piano fallimentare, dato che l’omicidio non ha fatto altro che spingere il Paese sciita a dedicarsi alla cosa estera con maggiore assertività.
Le misure del 45º presidente americano sono state vissute con una certa incredulità da parte degli alleati europei, in particolare da Germania e Francia. L’Europa ha accusato Trump di non rispettare le norme previste dal diritto internazionale, come nel caso degli accordi con l’Iran o delle minacce statunitensi di iniziare una guerra commerciale con l’UE: minacce che si sono effettivamente tradotte in fatti con l’imposizione di nuovi dazi che hanno danneggiato i rapporti commerciali tra le due parti.
La rivalità tra Trump e Bruxelles non era meramente economica. Il magnate newyorkese rifiutava tutto quello che il sistema europeo rappresenta: un progetto politico post-nazionale, basato sull’interdipendenza tra Paesi e sviluppato sul superamento del concetto di sovranità statale. Tutto il contrario della visione “America First“, cioè il trionfo dello stato come entità dominante della politica internazionale.
Per Trump le negoziazioni commerciali devono avere un vincitore e un perdente. L’UE, invece, fonda buona parte della sua forza sul concetto che sia possibile trovare accordi win-win, che non scontentino nessuna delle parti coinvolte. Due visioni conflittuali che hanno spinto l‘Europa tra le braccia della Cina, aprendo le porte alla penetrazione russa nell’Europa Orientale.
Le cose sono peggiorate con la pandemia di Covid-19, gestita in maniera discutibile dall’amministrazione americana, con Donald Trump che è arrivato allo scontro aperto con i cinesi. Certo, i rapporti con Pechino non si sono inaspriti con la crisi sanitaria, dato che entrambi i Paesi hanno affrontato una dura guerra commerciale, che sembra aver danneggiato ulteriormente gli Stati Uniti, soprattutto in vista della chiusura del RCEP, il più grande accordo di libero scambio della storia per volumi economici.
Molti continuano ad insistere sul fatto che Trump non abbia fatto una guerra. Questo è vero, ma nel Ventunesimo Secolo le guerre non sono più soltanto militari, come il terrorismo e la guerra dei dazi con la Cina dimostrano. Inoltre andrebbe ricordato che nel 2019 l’esercito americano ha lanciato 7.423 bombe sull’Afghanistan, il numero più alto degli ultimi 10 anni, e che all’inizio del 2020 Trump avrebbe chiesto ai suoi consiglieri di mettere a punto una strategia che mirasse a colpire un sito nucleare iraniano.
Cosa aspettarsi da Joe Biden?
É inutile girarci attorno. Ciò che gran parte della Comunità Internazionale si aspetta da Joe Biden è che riporti gli Stati Uniti a ricoprire il ruolo di leadership politica, economica e morale che ne aveva fatto il perno dell’ordine multilaterale dal secondo dopoguerra in poi. Da senatore di lungo corso e da ex vicepresidente, Biden ha delineato più volte le fondamenta della sua politica estera. Si tratta di una visione basata sulla ricostruzione dell’immagine dell’America all’estero e sul tentativo di restituire a Washington la sua autorevolezza e la sua credibilità nel mondo.
Ad attendere il presidente eletto c’è una sfida, però, tutt’altro che semplice. Quattro anni di presidenza Trump hanno scosso nel profondo la fiducia degli alleati e non è detto che il cambio della guardia alla Casa Bianca possa bastare per rifocillarla. Internamente Biden si troverà a fare i conti con le pressione di un’opinione pubblica sempre più contraria all’interventismo americano negli affari globali e al contempo critica verso la Cina. Il presidente dovrà scegliere un approccio per accontentare le due parti: costruire un terreno fertile su cui impiantare i semi di un multilateralismo tendente ad una interazione negoziale di tipo pacifico oppure delineare un confine netto tra “noi e loro”.
La politica estera della futura amministrazione Biden tornerà a basarsi sul principio di deterrenza, come durante la Guerra fredda. Questa volta, però, non si parla più di missili bensì di nuove tecnologie che proteggano le comunicazioni dai tentativi di penetrazione cinesi e russi. Un altro pilastro verterà sulla promozione dei diritti umani e della democrazia, che si traduce in una maggiore durezza nei confronti dei regimi autocratici e antidemocratici. Si prevede che Biden non promuoverà né legittimerà regimi pessimi sotto il punto di vista del rispetto dei diritti dei propri cittadini, come fatto invece da Trump con i suoi incontri con Kim Jong-un. Presidenti autoritari come il brasiliano Jair Bolsonaro, l’egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il filippino Rodrigo Duterte non troveranno un amico alla Casa Bianca disposto a guardare dall’altra parte.
Inoltre Biden ha espresso chiaramente la volontà di riportare gli USA nel mondo del multilateralismo, rafforzando la NATO e rientrando nelle istituzioni dalle quali Trump si era ritirato. Dall’OMS all’Unesco, passando per la Commissione ONU sui diritti umani e gli accordi di Parigi. Senza trascurare l’accordo sul nucleare iraniano.
Ma gli anni del Tycoon non possono essere cancellati così facilmente. Hanno lasciato un’eredità dentro e fuori gli Stati Uniti. Il disimpegno e l’interruzione dell’approccio multilaterale hanno indicato la vulnerabilità e i limiti dell’azione statunitense e soprattutto hanno lasciato la possibilità agli altri Paesi di cercare soluzioni alternative.
A Biden, e al suo entourage, l’onere politico di ripresentarsi come l’alternativa migliore.
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Bravo Donatello!
Hai reso chiaro questo passaggio di poteri.
Io spero che dopo decenni di sceriffato americano si aprano alternative migliori.
Ma questo sará possibile solo se ci saranno esseri umani migliori, ossia che esercitino le migliori qualitá umane, personali e sociali sul globo: un cambiamento antropologico, piú impegnativo di quello presidenziale. Non trovi?
Saluti. Brunella
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