La Cina firma con 14 Paesi il più grande patto commerciale del pianeta. Ci sono i 10 Paesi ASEAN insieme a Corea del Sud, Giappone, Australia e Nuova Zelanda
(Asiablog.it) — Dopo ben otto anni di negoziazioni, la Cina è riuscita a concludere l’accordo commerciale più grande del mondo, il quale la lega con altre 14 economie orientali e non solo. La firma del Partenariato Economico Globale Regionale (Regional Comprehensive Economic Partnership, RCEP) è arrivata domenica 15 novembre ad Hanoi, al termine del vertice dell”Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). Oltre alla Cina e ai 10 membri dell’Asean (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam), hanno firmato la Rcep anche Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.
Un (altro) sforzo egemonico
L’accordo raggiunto va ad affiancarsi all’altro sforzo egemonico compiuto dalla Cina nel corso di questi anni: la Nuova Via della Seta, o Belt and Road Initiative (BRI), che sta già avendo un impatto più che rilevante sull’intero commercio mondiale.
Il miglioramento dei collegamenti commerciali con i Paesi dell’Eurasia non è però l’unico interesse del governo della Repubblica popolare cinese. La Rcep, come la Bri, ha un intrinseco valore geopolitico. Nella competizione sempre più aspra con Washington, Pechino ha portato avanti con pazienza e astuzia la propria diplomazia, costruendo, almeno sulla carta, un blocco di interesse e di influenza non indifferente e che arriva ad abbracciare anche i tradizionali alleati degli Stati Uniti nella regione Indo-pacifica, a partire dal Giappone.
Sfruttando un ritorno di immagine derivante dagli ultimi dati finanziari disponibili, che vedono quella cinese come l’unica grande economia a salvarsi dalla recessione nell’anno della Covid-19, Pechino disegna il suo grande progetto egemonico rimuovendo gli ostacoli e le trappole poste dagli Stati Uniti, i quali, dal canto loro, con l’amministrazione Trump hanno allentato la presa sulla regione per dedicarsi all’America First.
A dire il vero, l’accordo avrebbe potuto avere dimensioni ancora maggiori se l’India non avesse abbandonato il progetto nel 2019. Le ragioni per cui lo ha fatto non riguardano solamente i recenti scontri sulle montagne rocciose dell’Himalaya. Ci sono anche motivazioni intrinsecamente economiche, ovvero i timori indiani di fronte alla strapotenza commerciale cinese. Nello specifico, l’India dipende già dalla Cina, soprattutto nel settore secondario, ma ciò non rappresenta, stranamente, un problema per gli indiani. Il loro timore è quello di dover concorrere in una lotta impari nel settore dei servizi, punto forte dell’economia del subcontinente.
RCEP, numeri da paura
Anche senza l’India, i numeri dell’accordo sono impressionanti. La regione interessata produce il 30% del PIL mondiale (26 trilioni di dollari) e coinvolge 2,3 miliardi di persone, cioè un terzo della popolazione mondiale.
L’accordo punta a ridurre in modo progressivo i dazi in modo da facilitare gli investimenti e gli scambi tra i Paesi contraenti (creando regole d’origine comuni), rafforzare le catene di approvvigionamento regionali ed aumentare l’interdipendenza delle economie interessate. Secondo le stime, questo favorirà l’aumento del prodotto mondiale di circa 200 miliardi di dollari entro il 2030.
La colpevole assenza degli Stati Uniti
Non giriamoci troppo intorno: la Rcep, per Pechino, è un chiaro successo. Ed il presidente cinese Xi Jinping lo ha ottenuto adottando una prerogativa diplomatica che fino a quattro anni fa apparteneva principalmente agli Stati Uniti: il multilateralismo. Barack Obama lo aveva adoperato nel tentativo di concludere il progetto della Trans-Pacific Partnership (TPP), poi stracciato da Trump e ancora in vita grazie all’interesse giapponese, che vuole fare affari con il Paese del Dragone ma al contempo vuole tutelarsi dall’eccessivo entusiasmo cinese nella regione.
Nel corso degli anni Washington ha costruito un cordone sanitario attorno a Pechino fatto di navi militari e di controllo dei colli di bottiglia strategici presenti nella zona. Ma oltre a mettere in campo una presenza militare su larga scala, la strategia per l’Asia orientale dell’amministrazione Obama mirava ad arginare l’imponente ascesa cinese lavorando con le istituzioni multilaterali regionali, aumentando gli investimenti economici americani nell’Asia-pacifico, firmando nuovi accordi commerciali e promuovendo la democratizzazione ed i diritti umani.
La Free and Open Indo-Pacific Strategy di Trump, invece, ha parzialmente abbandonato il multilateralismo a favore dell’unilateralismo commerciale, basato da un lato sulla ricerca del potenziamento dei rapporti bilaterali tra Washington e gli alleati nella regione Indo-pacifica, e dall’altro su una “guerra dei dazi” contro Pechino al fine di punire la Cina per le sue pratiche commerciali scorrette e per il furto della proprietà intellettuale perpetuato dalle aziende cinesi, nel tentativo di aiutare il sistema produttivo statunitense colpendo un suo concorrente sleale.
Nessuno di questi obiettivi è stato centrato. La guerra commerciale, aperta e chiusa nel giro di qualche mese, è terminata con un nulla di fatto e una figuraccia diplomatica americana, mentre la conseguenza dell’unilteralismo commerciale è stata quella di rafforzare ulteriormente la presenza economica cinese nella regione. Gli Stati Uniti sono rimasti all’angolo e si sono visti costretti ad intervenire nell’unico modo che contemplano: rafforzando la presenza militare in loco. Ma intanto Pechino ha pressoché normalizzato Hong Kong, continua a minacciare Taiwan e non cede di un millimetro sul Mar Cinese Meridionale.
L’influenza degli Stati Uniti in Asia, già in declino da decenni, è stata accelerata dalla politica estera dell’ultimo inquilino della Casa Bianca, che ha anche acceso il confronto tra le due potenze. Per frenare il declino americano una risposta meramente militare sarebbe inutile: c’è bisogno di un’opera strategica credibile in grado di ripristinare la presenza statunitense nella regione economicamente più appetibile del pianeta. Un’uscita di scena così plateale sarebbe un colpo troppo grosso per la leadership mondiale di Washington.
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Te lo dico io i cinesi fra un po’ ci mangiano in testa.
Una volta si diceva: mámma lí turchi…oggi…lí cinesi! Bisogna considerare comunque la capacitá asiatica nell’ averlo fatto!
Se funzionerá meglio degli United States of America e dell’Unione Europea, vuol dire che sono piú bravi! Peggio per noi. Ciao Brunella
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