In gioco c’è l’autonomia dell’ex colonia britannica, hub finanziario globale e isola di semilibertà sempre meno tollerata dal regime totalitario di Pechino
(Asiablog.it) — Oggi a Hong Kong il Consiglio legislativo (il Parlamento locale) assediato dai manifestanti ha rinviato la discussione su un controverso emendamento alla legge sulle estradizioni. La seduta, che doveva iniziare questa mattina alle 11 ora locale, è stata rinviata dal Consiglio «a data da destinarsi» mentre all’esterno la polizia usava idranti, spray al peperoncino, gas lacrimogeni e proiettili di gomma nell’intento di disperdere migliaia di manifestanti. Le massicce proteste sono iniziate domenica scorsa con una manifestazione oceanica che ha portato in piazza oltre un milione di persone, secondo gli organizzatori, e 240 mila secondo la polizia. Era dal 2014, cioè dal tempo del movimento “Occupy Central“, che non si vedevano manifestazioni così grandi a Hong Kong.
Estradizione, la legge della discordia
L’amministrazione filo-cinese di Hong Kong, capeggiata dalla 62enne Carrie Lam, ha proposto di emendare la legge sull’estradizione citando il caso di un 20enne hongkonghese, Chan Tong-kai, ricercato da una Corte taiwanese con l’accusa di aver ucciso la fidanzata, Poon Hiu-wing, 19 anni, mentre i due erano in vacanza nell’isola di Taiwan. In mancanza di una convenzione di estradizione tra i due governi, l’uomo non può essere rispedito a Taiwan per essere processato. Questo caso dimostra, secondo i promotori dell’emendamento, l’esistenza di un vuoto legislativo da colmare per evitare che la ricca città-stato diventi un «rifugio per criminali». Da qui la proposta di prevedere la possibilità di estradare nella Cina continentale, ma anche a Macao e a Taiwan, tutte le persone accusate di reati gravi, ovvero di crimini punibili con una pena superiore ai sette anni di detenzione.
Le ragioni degli oppositori
Secondo chi critica l’emendamento, la nuova legge rappresenterebbe una pericolosissima minaccia per le libertà civili finora garantite a Hong Kong ma negate nel resto della Cina, dove il Partito comunista detiene il potere dalla fondazione della Repubblica popolare nel 1949. L’adozione del nuovo testo semplificherebbe la consegna di indagati dall’ex colonia britannica alla Cina continentale, dove rischierebbero processi sommari per vaghe accuse legate alla sicurezza nazionale. Difatti mentre nel territorio che fino al 1997 era controllato dal Regno Unito i cittadini godono della protezione dello stato di diritto, nel sistema giudiziario del resto della Cina non esiste la separazione dei poteri e la magistratura è subordinata al Partito.
Gli oppositori sostengono che la legge attualmente in vigore vada difesa in quanto salvaguarda l’autonomia di Hong Kong, in linea con lo schema di “un Paese, due sistemi”, alla base della Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica del 19 dicembre 1984. La Dichiarazione stabilisce che in cambio del ritorno alla Cina di tutti i territori di Hong Kong a partire dal primo luglio 1997, Pechino si impegna a garantire all’ex territorio britannico «un alto grado di autonomia» con poteri legislativi e giudiziari «indipendenti». L’articolo 4 della Legge fondamentale, la mini-costituzione che governa la Hong Kong post-coloniale, promette di «salvaguardare i diritti e le libertà dei residenti della Regione amministrativa speciale di Hong Kong e delle altre persone nella Regione in conformità alla legge».
Ad alimentare la preoccupazione che gli emendamenti possano rafforzare il controllo cinese sul dissenso locale sono anche gli avvenimenti degli utimi anni, come il rapimento di alcuni dirigenti di casi editrici di Hong Kong critiche nei confronti del Governo di Pechino, la squalifica di diversi deputati pro-democrazia e l’arresto dei leader del movimento Occupy Central.
Cosa vuole Pechino
Pechino ha ribadito lunedì che nonostante le manifestazioni di protesta la sua posizione resta a sostegno della legge. Nel quadro del contesto geopolitico internazionale, caratterizzato da crescenti critiche sia alla politica interna cinese, in particolare per quanto riguarda la situazione dei diritti umani, sia al comportamento cinese sui mercati internazionali, a partire dalla “guerra dei dazi” con Washington, la Cina intende mettere al sicuro le sue regioni autonome, a partire dal Xinjiang, teatro di un’aspra repressione contro la popolazione musulmana iugura, e appunto dalla “normalizzazione” di Hong Kong.
Come spiega il sinologo Francesco Sisci, il timore di Pechino è che la libertà di Hong Kong possa essere di cattivo esempio, ovvero che la piccola isola semi-democratica diventi il cavallo di Troia per una ribellione che passi dall’isola alla Cina stessa. Per prevenire questa eventualità, il Governo della Repubblica popolare ha intenzione di rafforzare il suo controllo sull’ex colonia britannica, con l’obiettivo di limitarne i potenzialmente contagiosi spazi di dissenso.
Borsa di Hong Kong
La borsa di Hong Kong è la terza piazza finanziaria asiatica dietro Tokyo e Shanghai e la quinta al mondo, con una capitalizzazione di mercato di 4mila miliardi di dollari Usa, ma rischia di pagare a caro prezzo la crisi politica in corso e l’eventuale introduzione della nuova legge sulla estradizione. Alcuni banchieri di Hong Kong hanno riferito che molti clienti stanno spostando i loro conti a Singapore, nel timore che tra gli obiettivi di Pechino ci siano proprio i funzionari e i miliardari cinesi trasferitisi nella regione autonoma per evitare procedimenti giudiziari in patria. Hong Kong, tra i principali hub finanziari al mondo grazie anche all’alto grado di libertà e competitività economica che garantisce a cittadini, residenti e investitori esteri, finora non ha mai accettato una richiesta di estradizione nella Cina continentale. La riforma metterebbe la parola fine a questa situazione. Una prospettiva poco attraente per la potente e numerosa comunità degli affari hongkonghese, considerando anche che per i “reati economici” come la corruzione l’ordinamento della Repubblica popolare prevede la pena di morte, nei casi più gravi.
«Non è facile trasformare un milione di persone benestanti in dissidenti», ha scritto William McGurn. «Ma forse questo è quanto la Cina è riuscita a fare a Hong Kong».
Il presidente del Consiglio legislativo, Andrew Leung, ha indicato che il voto definitivo sulla legge dovrebbe tenersi il 20 giugno. Nel frattempo continuerà il braccio di ferro, con le posizioni dei due fronti apparentemente inconciliabili.
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