Fu uno dei regimi più brutali del Novecento: quattro decenni dopo la Cambogia è ancora alle prese con il suo passato
(Asiablog.it) — Circa settantamila persone, in buona parte militanti del Partito del Popolo cambogiano (CPP), si sono riuniti lunedì mattina allo stadio olimpico di Phnom Penh per celebrare il quarantesimo anniversario della liberazione dal regime dei Khmer Rossi. Era il 7 gennaio 1979 quando le truppe vietnamite rovesciarono il regime di Pol Pot ponendo fine al fine al periodo più tragico della storia della Cambogia.
I Khmer Rossi, la cui rozza ideologia univa alcuni elementi del marxismo (versione maoista) con una versione estrema di nazionalismo, presero il potere nell’aprile del 1975 e crearono una delle dittature più sanguinose della storia, dove i membri del partito – conosciuto in quegli anni con il nome di “Angkar”, ovvero “L’Organizzazione” – avevano potere di vita e di morte sul resto della popolazione.
I Khmer Rossi non erano interessati a portare avanti riforme graduali. Fecero tutto e subito, e in modo radicale: la proprietà privata, il denaro, la religione e la cultura tradizionale furono abolite e il Regno della Cambogia divenne noto come Kampuchea democratica.
In pochi giorni il Paese fu rivoltato come un calzino: i guerriglieri comunisti svuotarono le città, fecero saltare in aria le banche e bruciarono le banconote (almeno ufficialmente, mentre in realtà i capi del partito misero da parte le riserve in dollari). Tutti, bambini e vecchi, intellettuali e medici, furono costretti ad andare a lavorare nei campi.
Le persecuzioni e gli omicidi di massa colpirono principalmente la classe media e gli intellettuali (professionisti, commercianti, medici, avvocati, giornalisti, artisti, maestri e studenti) così come i monaci buddisti, le minoranze etniche (a partire da vietnamiti e Cham, in maggioranza musulmani) e ovviamente chiunque fosse legato al regime precedente.
“Quello che è marcio deve essere rimosso”, recitava un popolare slogan dei Khmer Rossi. E fecero esattamente quello, spesso ammazzando i malcapitati con un pallottola in testa o asfissiandoli con buste di plastica, quando le pallottole non c’erano o si preferiva risparmiarle. Ma a volte semplicemente facendoli lavorare nei campi con razione di cibo ridicole.
L’obiettivo era creare una società agraria, collettivista, senza classi, autarchica, isolata dal mondo e completamente autosufficiente. I risultati furono disastrosi: la fame per il fallimento delle politiche agricole e il blocco delle importazioni, le malattie per la mancanza di medicine, torture indicibili e barbare esecuzioni per il minimo “crimine” o sospetto. I Killing Fields. Il genocidio che in meno di quattro anni causò la morte di un numero compreso tra 1,6 e 3 milioni di persone: circa un quarto dell’intera popolazione cambogiana. Solo l’ennesimo fallimento del comunismo, ma uno dei più rapidi e sanguinosi.
Quattro decenni dopo, la Cambogia, una nazione in via di sviluppo di circa 16 milioni di persone, è ancora alle prese con il suo passato. Non solo le immani tragedie causate dal governo ufficiale dei Khmer Rossi, ma anche la guerra civile che seguì e continuò nei primi anni Novanta, bloccando il Paese nella povertà più nera per decenni.
A novembre, un tribunale speciale ha emesso una sentenza storica, condannando due degli ultimi capi del genocidio sopravvissuti al regime. Quel verdetto, dalla portata storica, ha sottolineato l’eredità persistente del regime genocida sulla società cambogiana oggi.
Il regime odierno festeggia il 7 gennaio come il primo giorno di una nuova era di indipendenza, libertà, democrazia e progresso sociale. Le celebrazioni sono state presiedute dal dittatore (nominalmente primo ministro) Hun Sen, il presidente dell’Assemblea nazionale Heng Samrin, il presidente del Senato Say Chhum e diversi ambasciatori stranieri in Cambogia.
Ci sono state esibizioni di danzatori, ginnasti e degli stessi spettatori. Migliaia di persone si sono schierate in formazione per creare la bandiera nazionale della Cambogia. Altri si sono seduti per creare rappresentazioni di una colomba, simbolo di pace, e lo slogan “lunga vita al Regno di Cambogia”. C’erano anche molte bandiere cambogiane e poster propagandistici che celebrano lo sviluppo economico e sociale in vari settori e province del Paese.
Nonostante le pompose celebrazioni e le colorate coreografie, “è molto difficile all’interno della politica cambogiana avere una conservazione libera e onesta su chi siano i Khmer Rossi”, dice al Time Sebastian Strangio, autore di Hun Sen’s Cambodia. Nella Cambogia di Hun Sen, lui stesso un ex guerrigliero dei Khmer Rossi, che poi ha abbandonato per passare con i vietnamiti, il controllo del governo sull’informazione ha “inibito il raggiungimento di una comprensione oggettiva di ciò che è accaduto”, dice Strangio. “Dovrà passare questa generazione politica prima che la gente possa avere questo tipo di conversazioni”.
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Ci vorranno altri 40 anni per porre rimedio ai disastri dei favolosi anni 70.