Nel 1929 ebbero una gran bella idea: lavorare di domenica per il bene della Patria
Domenica 4 agosto 1929 in URSS si tenne la prima “Giornata dell’Industrializzazione”. In un clima di festa, tra bandiere rosse e cori socialisti, la gente iniziò a lavorare di domenica, rinunciando ad un giorno di riposo, per il bene della patria sovietica. L’obiettivo era quello di accelerare l’industrializzazione del paese in modo da creare una società capace di soddisfare i bisogni di ogni individuo. L’idea di lavorare (ancora) di più per accelerare lo sviluppo del paese era stata proposta da un lavoratore con una lettera inviata alla Leningradskaya Pravda. (O almeno questa fu la versione ufficiale). I dirigenti dello stato socialista al mondo accettarono il consiglio e rilanciarono l’iniziativa a livello nazionale, dalla capitale Mosca al più piccolo kolchoz siberiano. Presto milioni di “lavoratori esemplari”, tutti volontari, secondo la vulgata ufficiale, vennero inquadrati in brigate che gareggiavano in competizioni consistenti nel lavorare e produrre anche la domenica. In cambio si ricevevano medaglie e soprattutto premi materiali: razioni di cibo più abbondanti, beni di consumo altrimenti difficili da reperire, soggiorni alle terme e via dicendo.
In tutto questo lo Stato guadagnava su due fronti: la produzione aumentava e milioni di persone venivano allontanate da pericolosi vizi domenicali, dall’alcol alla religione.
Questo è solo un esempio delle immense fatiche patite dai lavoratori e degli enormi sacrifici compiuti dal popolo sovietico, che nel giro di vent’anni riuscì a trasformare il paese più arretrato d’Europa nella seconda potenza economica mondiale. Lo racconta senza enfasi Alexander Baykov nel libro LO SVILUPPO DEL SISTEMA ECONOMICO SOVIETICO.
A fare da contraltare al rapidissimo balzo in avanti dell’economia sovietica ci furono i costi umani inenarrabili pagati da chi non credeva nel progetto, o semplicemente da chi ebbe la sfortuna di essere accusato di qualche azione o atteggiamento non in linea con gli ambiziosi progetti economici dello Stato retto da una “dittatura del proletariato”. Non a caso, nel 1932 venne introdotta la pena di morte per “il furto di proprietà statali o pubbliche in quantità particolarmente elevate”. Sempre nello stesso anno venne introdotta la possibilità di licenziamento per coloro che mancavano per un giorno dalalavoro “senza giusta causa”.
Dalla Rivoluzione del 1917 fino almeno alla morte di Stalin nel 1954, lo stato di polizia rimase ininterrottamente alla ricerca di “sabotatori” e “contro-rivoluzionari”, vale a dire di chi per qualunque ragione veniva accusato di ostacolare l’avanzata della rivoluzione. I numeri stimati variano notevolmente. Forse furono 3,7 milioni le persone condannate per presunti crimini contro-rivoluzionari tra gli Anni Venti e il 1954, tra cui almeno 600.000 condannati a morte e 2,4 milioni di condannati ai campi di lavoro. La repressione stalinista raggiunse il suo picco durante le Grandi Purghe del 1937-1938, quando tra i condannati a morte finirono anche molti dei più qualificati ed esperti manager sovietici, con la paradossale conseguenza di rallentare notevolmente la produzione industriale di quel biennio.