Con Berlinguer alla corte di Kim
L’eccessivo dittatore nordcoreano e l’austero segretario del Pci. Accolto da una folla che sventolava fiori di plastica
Articolo di Bernardo Valli, Con Berlinguer alla corte di Kim, L’Espresso, 16 luglio 2017
Ho conosciuto il nonno di Kim Jong-un, la Guida suprema che dall’estremità dell’Asia inquieta il mondo con le sue armi nucleari. In questa affermazione c’è una dose di vanità. Un cronista non poteva conoscere, familiarizzare con Kim il-sung, il “presidente eterno” della Repubblica nordcoreana. Poteva incontrarlo, osservarlo, ascoltarlo. Ed è quel che è accaduto quando sono stato suo ospite.
Era imponente. Massiccio. Aveva l’andatura di un uomo che ha faticato nei campi. Ma nel fiume di parole che ti rovesciava addosso c’era di tutto: la sua versione della politica, della filosofia, della storia, della guerra, dell’economia. La “juché”, l’autosufficienza, era alla base della sua ideologia.
Chi gli stava di fronte era ridotto in silenzio. Non credo sopportasse le domande. Non certo quelle di un cronista straniero, di stampo capitalista, quale ero in quella primavera del 1980, in cui capitai a Pyongyang, al seguito di Enrico Berlinguer in visita ufficiale nella Corea del Nord.
Non esistevano personaggi più diversi. Berlinguer era riservato, non andava mai fuori dalle righe. Né un gesto né un aggettivo di troppo. A prima vista Kim il–sung mi sembrò un eroe di Rabelais più che di Orwell. Forse c’era in lui un po’ dei due: di Gargantua e del Grande fratello. Eccedeva in tutto: nel parlare, nel ridere, nel manifestare simpatia o esprimere ostilità. Divorava più che mangiare. Eppure l’italiano, il più aristocratico dei leader marxisti di allora, e Kim il-sung, immerso in un culto della personalità senza limiti, avevano qualcosa in comune: l’indifferenza nei confronti delle prepotenti, grandi capitali comuniste. Da qui una strana, senz’altro contenuta, imbarazzata simpatia, tra le romane Botteghe Oscure e Pyongyang. Investito di una carica “eterna”, Kim il-sung è restato presidente anche dopo la morte. Morte probabilmente dovuta all’enorme ciste sul collo, e che i fotografi ufficiali nascondevano con cura. Ma era ben in vista quando fummo invitati a cena nel palazzo presidenziale. E Kim il-sung era a pochi metri, al tavolo in cui Berlinguer occupava il posto d’onore.
Era al potere da trentacinque anni e ne aveva ancora quattordici da vivere. Aveva alle spalle un passato non del tutto a torto definito leggendario dalla propaganda del regime. Secondo la quale anche il cinguettio degli uccelli raccontava le sue eroiche imprese. Era stato guerriero, cospiratore. Fondatore di un comunicsmo singolare, che sembrava e sembra confondersi con una dinastia familiare. Gli è succeduto il figlio Kim Jong-il, e adesso è al potere il nipote Kim Jong-un. Una monarchia comunista.
Atterrando a Pyongyang provenienti da Pechino, in quella lontana primavera si aveva l’impressione di essere capitati in un grande studio cinematografico: in una cinecittà estremorientale in cui era stata costruita una capitale comunista ideale. Ai piedi dell’aereo ci aspettava una piccola folla sorridente che sventolava mazzi di fiori rigidi, di colori strani. Osservati da vicino ci si accorgeva che erano di plastica. L’abbigliamento degli uomini era uniforme: camicia bianca, cravatta e scarpe di cuoio lucidissime. Quello delle donne era altrettanto uniforme, era un costume tradizionale coreano. I bambini indossavano divise scolastiche, rosse e azzurre, ispirate da modelli scandinavi. La folla di comparse che applaudiva la nostra comitiva diretta in città aveva gli stessi abiti e gli stessi mazzi di fiori finti. Le finestre affacciate sulla strada erano tutte addobbate con tendine dello stesso colore e tutte geometricamente accostate. Sul fiume accanto all’albergo passavano puntuali giovani sciatori. Lo sci acquatico sembrava un passatempo nazionale. In un cantiere edile un’orchestra accompagnava con musiche marziali il lavoro degli operai. Dopo le disciplinate manifestazioni di giubilo, le strade si sono svuotate. Non c’erano passanti e automobili, ma vigili scattanti regolavano il traffico inesistente. Nella capitale che sembrava finta non mancavano piccoli parchi, laghetti, campi da gioco. Dove si aggirava qualche essere umano, che sembrava in servizio comandato tanto era composto.
La sera della cena ufficiale, quando entrammo nel salone, cui si accedeva da più porte presidiate da ragazze in minigonna che porgevano vassoi ricolmi di sigarette, almeno trenta tavoli, con candelabri accesi, erano già occupati. I maschi in abito scuro, le femmine in abito lungo. All’improvviso una parete si spalancò e apparve un palcoscenico, sul quale un folto e potente coro intonò “Bella ciao”. Lo confesso, alcuni di noi si commossero, anche se eravamo delusi per non aver visto la Corea del Nord.
Bernardo Valli, Con Berlinguer alla corte di Kim, L’Espresso, 16 luglio 2017
Definire con l’aggettivo comunista un regime come quello nordcoreano è una falsificazione, una provocazione che ben definisce il carattere borghese di chi la porta.
Nel centenario dell’ Ottobre l’incapacità di riconoscere il falso socialismo non va letta come debolezza culturale, ma piuttosto come il disegno di una ferma volontà di isolare la lotta di classe e la rivoluzione comunista, riducendola e rappresentandola con stereotipi e modelli deformati.
Parliamo della collettivizzazione stalinista allora. Quella espressione di comunismo quanti morti ha fatto?