Il riconoscimento della Palestina da parte di Obama favorirebbe il raggiungimento della pace tra palestinesi e israeliani: lo scrive l’ex presidente Jimmy Carter sul New York Times
(Asiablog.it) – In un editoriale pubblicato pochi giorni fa sul New York Times, l’ex Presidente statunitense Jimmy Carter, in carica dal 1977 al 1981, chiede all’uscente Presidente Barack Obama che nell’agenda dei suoi ultimi compiti istituzionali vi sia anche quello di riconoscere diplomaticamente la Palestina.
Carter fu il Presidente che organizzò il famoso incontro, nel 1978 a Camp David, tra il Presidente egiziano Anwar Sadat ed il Primo ministro israeliano Menachen Begin. Fu un momento importante nella storia del conflitto arabo-israeliano, perché nell’occasione venne firmato uno storico accordo di pace tra Egitto ed Israele che poneva fine ad anni di ostilità tra i due paesi (ultima, nel 1973, la guerra esplosa durante le celebrazioni dello Yom Kippur – ricorrenza religiosa ebraica che celebra il giorno dell’espiazione – da cui prese il nome), oltre a restituire all’Egitto la penisola del Sinai in cambio di un allontanamento di quest’ultimo dal movimento politico palestinese dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
Carter è anche l’autore del libro Peace, not Apartheid in cui condanna fermamente le politiche israeliane in Cisgiordania. Il libro creò stupore negli Stati Uniti per i toni utilizzati, definendo appunto di apartheid le politiche israeliane nei confronti del popolo palestinese. L’ex presidente condanna fermamente le colonie ebraiche in Cisgiordania, quei numerosi tetti bianchi senza le cisterne con l’acqua che, al contrario, sono costretti ad avere i palestinesi per conservare qualche litro nei periodi in cui vengono chiusi i rubinetti da chi detiene il controllo della preziosa risorsa. Quelle dei coloni sono case edificate su territori confiscati, a volte con la forza, a chi ne deteneva la proprietà. Abitanti palestinesi finiti dalla parte del torto per reazioni causate dall’oppressione vissuta quotidianamente in città come Hebron, dove il problema della difficile convivenza sta raggiungendo livelli estenuanti. (A tal proposito suggerisco agli interessati il documentario This is my land Hebron). Simili difficoltà si possono riscontrare anche in altre zone della Terra Santa, tra cui Gerusalemme. Ricordo una frase, molto significativa, scritta su di un muro alle porte di un quartiere della città, abitato prevalentemente da palestinesi, Silwan, che recitava: “My homeland is not a suitcase, and I’m not a traveller”.
Tornando però all’articolo scritto dall’ex Presidente, in esso sono espresse interessanti considerazioni con le quali cerca di ottenere le giuste attenzioni di Obama ad un’azione diplomatica che avrebbe un’importanza di non poco conto considerando che, salvo sorprese a cui comunque dovremo abituarci, il prossimo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, potrebbe mostrarsi decisamente meno incline ad un’azione di questo genere.
Le richieste scritte da Carter rispecchiano quello che è sempre stato l’impegno di un uomo che ha creduto nella possibilità di un punto d’incontro tra due territori, due popolazioni, due religioni allo stesso tempo tanto lontane quanto vicine. Possono sembrare contraddizioni, ma molte di queste rispecchiano la quotidianità tra la gente che vive in quella terra, tra chi può muoversi liberamente e chi, al contrario, non può oltrepassare un muro in cemento sempre più lungo, irrispettoso dei confini tra i due stati e che rovina (in alcuni casi distrugge) terre abitate, spesso fonte di sostenibilità agli abitanti della Palestina.
Potete leggere l’editoriale dell’ex Presidente democratico Jimmy Carter sul New York Times: America Must Recognize Palestine.
- Carter: Obama riconosca la Palestina prima della fine del suo mandato - 09/12/2016
- Siria, è l’ora del cessate il fuoco - 14/09/2016
- Strage a Kabul, il dramma della minoranza hazara - 26/07/2016