La strategia islamista: colpire gli “schiavisti”
La comunità italiana e le mani sul tessile: 70 dollari al mese per un operaio
di Virginia Della Sala, Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2016
“Ricordo gli sguardi di odio: mentre ci aggiravamo nelle fabbriche fingendo di essere dei compratori, i lavoratori ci guardavano con rabbia. Per loro eravamo il nemico: la maggior parte degli italiani e degli stranieri che va in Bangladesh, ci va per lo sfruttamento della manodopera dell’industria del tessile”.
A inizio 2014, Liza Boschin ed Elena Marzano, giornalista e producer per il programma di inchieste di Rai 3 Presa Diretta, vanno in Bangladesh per girare un servizio sulle produzioni tessili, a partire da quelle delle aziende italiane, che sfruttano la manodopera bengalese. Sette mesi prima, c’era stato il crollo della fabbrica di Rana Plaza che aveva sepolto sotto le macerie oltre mille lavoratori.
“Volevamo capire come funziona la produzione del Prêt-à-porter – spiega Boschin -. C’è un sistema di subappalti molto complicato, intrecciato, sommerso: un caos creato ad arte per rendere difficile risalire ai committenti”.
Dopo il giro con la telecamera nascosta nelle fabbriche dei dipendenti sfruttati e l’incontro con imprenditori, Benetton in testa, che con meno di un dollaro portano a casa una maglia confezionata e marchiata, Liza, Elena e l’operatore bengalese riprendono gli scontri e le manifestazioni in strada, in una giornata di proteste sindacali.
“Nonostante avessimo una telecamera e un operatore del posto, nel momento di maggior panico, con la polizia che sparava nelle fabbriche, quando quindi viene fuori il vero sentimento delle persone, quegli stessi lavoratori che avevamo visto chinati sulla loro macchina da cucire ci hanno accerchiato. La folla ci ha attaccato identificandoci come i loro oppressori. Sono rimasta solo con i jeans addosso. Abbiamo pensato che ci avrebbero ammazzato. Per fortuna qualcuno si è accorto della situazione, ci ha prelevato e nascosto nelle fabbriche e nelle case. Siamo rimaste chiuse lì per ore, prima di scappare”.
È l’espressione della frustrazione di un popolo oppresso. Il Bangladesh è un Paese sfruttato dalle multinazionali del tessile e da chi con loro fa affari. Ha la più alta densità di popolazione del mondo e la manodopera costa poco, con uno stipendio medio di 70-100 dollari al mese. E infatti, l’export dell’industria tessile costituisce ben il 30 per cento del Pil. Un’altra grande fetta, viene dagli emigrati. Secondo alcune stime, il contributo al Pil delle rimesse di chi è andato a lavorare all’estero è pari a circa l’11 per cento.
“Gli operai sono schiavizzati, la politica si proclama laica ma ci sono forti tensioni economiche e soprattutto generazionali”, spiega Boschin. Il radicalismo musulmano, anche se negato dal governo, è sempre stato presente e si aggrappa allo scontento soprattutto con l’aumento delle scuole religiose.
“L’attacco di Dhaka è avvenuto a Gulshan, uno dei quartieri più ricchi della città – spiega Shafiur Rahman, operatore bengalese che fa la spola tra Londra e Dakha – È un luogo di passaggio per gli stranieri”.
Due grandi alberghi, ristoranti lussuosi, case che costano più che a Roma centro.
“È il quartiere degli stranieri e degli imprenditori del tessile, soprattutto europei. E anche italiani. È il posto da colpire se si vuole colpire il governo, se si vuole ferire lo stato e il suo motore economico”.
L’ISIS, spiega Shafiur, aveva più volte indicato il governo bengalese come un governo criminale, da punire. E lo aveva fatto dalle pagine della rivista Dabiq.
“L’unico modo per farlo era attaccare il principale business bengalese: come a dire attacchiamo gli stranieri così gli investitori smettono di arrivare. Sanno che il Bangladesh è ancora troppo dipendente dalle industrie estere, con le sue free zone e l’aumento delle banche d’investimento”.
Senza contare che la comunità italiana in Bangladesh è formata anche da centinaia di missionari. Sacerdoti, suore, medici.
“Sono coinvolti a tutti i livelli del sociale – dice Shafiur – , dall’istruzione alla sanità. La chiesa missionaria è molto numerosa”.
L’articolo integrale su Il Fatto Quotidiano
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