La mia visione del “Tempio delle Tigri” di Kanchanaburi è nota e non per nulla “il mio Tempio della tigre” era in contrapposizione a quello di Kanchanaburi e nel dichiararla avevo invocato lo sviluppo del nostro “bagaglio culturale”.
Andavi al Tempio di Kanchanaburi e ti scattavi una foto con una tigre senza riflettere che quell’animale non doveva essere in quel posto ma, quanto meno, in uno zoo moderno (gli zoo oggi hanno quasi tutti mutato la loro struttura di semplice esposizione) o in un centro specializzato nella salvaguardia degli animali selvaggi – un futuro triste ma a quanto pare ineluttabile, noi umani stiamo sottraendo sempre più spazio vitale agli altri animali -.
Era la foto di un essere umano assieme ad uno animale spietatamente estraniato dal suo habitat e maltrattato – questo era chiaro ancor prima del recente scandalo – e la cosa doveva essere evidente anche dalla marea del dissenso e delle proteste di altri, tanti, che ora come me gioiscono perché lo scempio è stato spazzato via.
Ora che, è il caso di dire, finalmente qualcosa è stato fatto per eliminare quella discutibile attrazione turistica che era il cosiddetto “Tempio delle Tigri” di Kanchanaburi, credo sia il caso di riflettere sul nostro rapporto con gli altri animali.
Siamo la specie vivente che domina o vorrebbe dominare il resto degli esseri viventi – e vorremmo poter dominare anche l’ambiente naturale – ma, nel contempo, preferiamo ignorare quale è il nostro giusto posto nella natura.
“… i nostri sforzi di conservazione hanno poco valore morale se noi conserviamo animali rari solo come ornamenti per noi; io sarò veramente impressionato quando mostreremo altrettanta sollecitudine per la sorte di rospi verrucosi e di vermi striscianti
… Se perverremo ad ammirare [gli animali] per quello che sono, e addirittura impareremo da loro alcune lezioni che la varietà della natura non tralascia mai di insegnare, capiremo infine, e col nostro massimo beneficio in termini sia pratici sia spirituali, quello che Thomas H. Huxley chiamò, nel linguaggio del suo tempo, “il posto dell’uomo nella natura”.
(Dalla recensione di Stephen Jay Gould a The Giant Pandas of Wolong di George B. Schaller, Hu Jinchu, Pan Wenshi e Zhu Jing, Chicago University Press – 1985, intitolata Come si adatta un panda e pubblicata in Un riccio nella tempesta – Ed. Feltrinelli.)
Ma invece di ammirare gli animali per quello che sono, o imparare le lezioni che la natura insegna:
Invadiamo il loro territorio o ci passiamo attraverso, ma non arriviamo mai a incontrarli. Lo zoo, il circo (sempre meno), i parchi naturali (sempre di più), le riserve di caccia, i canali televisivi dedicati agli animali, le società di protezione, i musei di storia naturale, ogni tipo di rifugi per animali; moltiplichiamo i luoghi, le occasioni e le modalità d’incontro. L’umanità passa il suo tempo a guardare animali. Non ce ne stanchiamo mai. Senza dubbio essi rappresentano per noi un mondo perfetto. Qualcosa di strano, diverso dal nostro mondo, da quel casino incerto e caotico che ne abbiamo fatto. A volte ci sembra così alieno che ci troviamo di fronte alla loro perfezione e ci sentiamo stupefatti e ammutoliti, e nonostante i nostri più sinceri desideri, ci chiediamo se potremo mai essere come loro, se potremo diventare una società così meravigliosa come quella delle formiche e dei pinguini, in cui ognuno ha il proprio posto, in cui ognuno sta al suo posto, e in cui ognuno sa e fa esattamente quello che deve fare, cosicché la società può perpetuare se stessa, immutabile, indefinitamente la stessa e infinitamente perfetta. Noi invece abbiamo fatto tanta fatica per trovare il nostro posto. Dopo i disastri del ventesimo secolo, le società animali sembrano essere divenute il nostro ideale. (Gérard Wajcman, The Animals that Treat Us Badly)
Passiamo il nostro tempo a guardarli ed anche invidiarli per certe “libertà” che loro hanno e che noi abbiamo perso o meglio, non abbiamo perso, stiamo imparando a filtrarle attraverso la nostra coscienza.
La specie umana appartiene al regno animale ma ha una sua unicità – quel qualcosa in più rispetto a tutti gli altri esseri viventi della Terra e che, nel tempo, ha fatto emergere la nostra specie dagli altri esseri viventi -, l’uomo può scegliere tra fare il bene o fare il male.
Ancor oggi molti credono che per l’uomo sia inevitabile delinquere, fare il male, credono in un residuo della nostra animalità primordiale che non possiamo eliminare.
… la popolarità delle riduzioni darwinistiche delle società umane a società animali, con le loro spiegazioni delle conquiste umane in termini di adattamento evolutivo. Giornali e riviste sono pieni di testi di scienza pop, che illustrano come gli scienziati siano riusciti a spiegare comportamenti umani apparentemente folli o inutili come fondati su strategie di adattamento.
“La salvezza verrà dal nostro essere animale – corpo, geni, neuroni e tutto il resto. Questo sussurra il cognitivista all’orecchio del politico per aiutarlo a trovare la via. Segui il capo! Torna alla tua animalità! E altre scemenze del genere.”¹
(Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ed. Ponte alle Grazie – ¹GérardWajcman, The Animals that Treat Us Badly)
Invece di ammirare gli animali per quello che sono abbiamo la pessima abitudine di antropomorfizzarli, senza renderci conto che così facendo otteniamo il solo risultato di rendere gli umani animali mentre gli animali restano quel che sono, animali non umani. Un uomo che si comporta come “un animale” è ben peggiore di quell’animale
Spesso mi capita di leggere (con fastidio) “orca assassina”, lo considero un ossimoro. A voler utilizzare la classificazione di legge per l’omicidio, direi che non si tratta né di atto preterintenzionale né di atto doloso, si tratta di uno atto colposo. In realtà sono solo animali che si cibano, forse l’uso di un linguaggio “politicamente corretto” non guasterebbe.
Nel video che segue vediamo una sequenza che mostra un leone compiere un gesto naturale che diventa, per l’uomo, umiliazione del re della foresta e divertimento. Questo per dire che la forza delle immagini (la forza della comunicazione visiva), che prevale spesso, se non sempre, sulla comunicazione scritta o parlata, non deve bloccare il nostro senso critico.
Immaginiamo l’anfiteatro Flavio (il Colosseo) dove vengono spinti in scena 20 esseri umani inermi e poi entrano 20 leoni affamati. Inutile sperare che “le bestie” non si mangino “gli umani”, anzi, lo scopo dello spettacolo è proprio quello. L’inevitabile, per natura, assurge a macabro spettacolo a seguito della combinazione creata di proposito dall’uomo.
Ora immaginiamo che, invece dei leoni, nell’arena vengano fatti entrare altri 20 esseri umani ben armati e, soprattutto, terribilmente affamati. Quello che può accadere nell’arena non sembra difficile immaginarlo, basta guardare il nostro passato.
L’uomo ha modificato l’abito culturale che ammetteva l’antropofagia – per altro ancora molto comune in ambito zoologico – con la sua trasformazione in un tabù, ma in momenti di lunga ed assoluta assenza di cibo, in presenza di morte certa per denutrizione, l’antropofago che è in noi può riemerge.
Nella nostra arena immaginaria ci sarà quindi chi proporrà un atto di antropofagia a fine di sopravvivenza ma ci sarà anche chi difenderà la vita di un altro essere umano ed offrirà la propria vita allo stomaco degli affamati e potrebbe anche capitare che il copione dello spettacolo muti completamente, nessuno viene mangiato.
A differenza di quanto capita con i leoni che possono solo sbranare tutti gli umani, vedremmo praticare una scelta tra la pietà ed il suo contrario, tra il bene ed il male.
Pietās, a voler usare la lingua dei tempi del Colosseo, è umana e non può essere praticata da altri se non dall’uomo e sarebbe magnifico vedergliela praticare più spesso, non solo nei confronti dei suoi simili, ma nei confronti di tutti gli esseri viventi.
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