Recensione del libro di Leslie Chang, Operaie, Ed. Adelphi
(Asiablog.it) — La Cina ha iniziato a risollevarsi dalle macerie dell’era maoista alla fine degli anni Settanta, quando il pragmatico Deng Xiaoping varò una serie di politiche economiche di “riforma e apertura” (gaige kaifang 改开放) ai mercati internazionali che favorirono un rapido aumento della produzione agricola e industriale.
Durante gli ultimi trent’anni, il gigante asiatico ha mantenuto un tasso di crescita medio annuo del 10%, registrando una costante riduzione del numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà. Tra il 1981 e il 2008 più di mezzo miliardo di cinesi sono usciti dalla povertà assoluta: un fenomeno unico per magnitudo e impatto sul resto del mondo.
Luci e ombre della crescita cinese
Tuttavia, questi straordinari dati economici tacciono su un aspetto fondamentale: la crescita del Pil e la diffusione del benessere non è proceduta di pari passi con lo sviluppo sociale della popolazione, mentre le diseguaglianze sociali sono cresciute esponenzialmente.
Le forti disparità regionali hanno incentivato la migrazione temporanea dei lavoratori, fenomeno che ha visto masse di individui spostarsi dalle arretrate aree rurali verso i poli industriali e manifatturieri delle province costiere.
La trasformazione della Cina nella celebrata “Fabbrica del Mondo” è avvenuta, quindi, per mezzo di una nuova classe operaia, quella dei lavoratori migranti, o nongmingong, i quali sono attualmente 274 milioni.
Ed è esattamente questo il punto di osservazione a partire dal quale prende le mosse il testo dell’autrice sino-americana Leslie Chang.
Dongguan, dove il Made in China è donna
“Operaie” è un’opera eccezionale, una storia illuminante e mai raccontata prima, un romanzo che racconta vividamente la vita quotidiana della popolazione migrante in Cina. Il testo, pubblicato in inglese e poi tradotto in italiano da Adelphi, ha l’innegabile pregio di svelare la realtà che si cela dietro il noto “Made in China”.
Leslie Chang, ex corrispondente da Pechino per il Wall Street Journal, pone l’accento sulle donne, sulle condizioni di vita delle lavoratrici migranti, le operaie che lavorano nelle fabbriche manifatturiere a basso costo a Dongguan, nel Guangdong, la provincia al sud della Cina che rappresenta il motore principale del Paese del Dragone.
La città stessa merita attenzione. Da piccolo centro agricolo, in pochi decenni Dongguan è diventata una megalopoli di 7 milioni di persone, una giungla di fabbriche giganti, inquinata, caotica e corrotta, che, tuttavia, produce il 30% dei capi d’abbigliamento, scarpe e hard-disk di tutto il mondo.
Oggi Dongguan è, secondo l’autrice, “un’espressione perversa della Cina nella sua forma più estrema”. Ma è proprio qui che Chang inizia il suo viaggio, e noi con lei, alla ricerca delle donne lavoratrici. L’autrice ne racconta le storie dal momento in cui lasciano i loro villaggi in cerca di fortuna fino a quando si ritrovano a lavorare nelle fabbriche che producono i giocattoli, i vestiti e le scarpe che il resto del mondo acquista.
Voci di donne
Leslie Chang si concentra sugli esseri umani, autori delle loro stesse narrative: descrive la vita quotidiana, le speranze, i sogni e le delusioni delle giovani donne che ha intervistato a Dongguan tra il 2004-2007. L’autrice va in giro per le fabbriche, si immerge nella realtà che cerca di capire e descrivere, acquista dei telefoni cellulari per alcune delle sue intervistate in modo da poter rimanere in contatto e arriva, perfino, a vivere con loro, a lavorare con loro.
In particolare, la storia è raccontata attraverso le vibranti personalità delle due giovani protagoniste, Min e Chunming, che l’autrice segue per tre anni, nel corso del loro disperato tentativo di cambiare il proprio destino. Chang racconta le loro storie più profonde, più intime e loro condividono con lei i diari personali e gli SMS, i momenti più romantici e perfino le relazioni, a volte burrascose, con le famiglie che hanno lasciato nelle campagne.
Uno dei punti forti del libro si verifica quando Chang visita la famiglia di Chunming durante la Festa della Primavera, un momento in cui tutti i lavoratori migranti tornano a casa. Chang, dopo aver addirittura dormito nello stesso letto con Min, riesce a riprodurre vividamente le emozioni, l’empatia e la solidarietà verso i suoi “soggetti d’analisi” che, alla fine, considera delle vere e proprie amiche.
I lavoratori migranti, una classe sociale a sé
Ciò che accomuna i capitoli del libro è lo sguardo rivolto alla condizione reale, all’esperienza vissuta degli operai-migranti, all’esclusione sociale da essi subita nella città che negano loro il diritto di acquisire l’hukou urbano e di conseguenza di fruire delle prestazioni sociali destinate ai residenti (accesso all’istruzione, alle cure mediche, ad abitazioni in affitto a prezzi ragionevoli).
Nel dibattito in corso sulla globalizzazione, Chang ci propone un’immagine di vita migrante diversa: un mondo in cui quasi tutti gli operai sono donne, sotto i trent’anni, costrette a lavorare per diverse ore al giorno, in condizione estremamente precarie.
Il dramma umano delle giovani migranti
Nel testo, l’autrice riesce a mettere in luce il buono, il brutto e il cattivo della Cina, ma, cosa più importante, ci rivela che ogni persona è un essere umano con speranze e sogni, alla ricerca di una sola cosa: la felicità. Il risultato è una rappresentazione eccezionalmente vivida dei drammi umani, delle paure, delle speranze e delle aspirazioni quotidiane delle giovani donne migranti.
In conclusione, “Operaie” costituisce una lettura fluida e piacevole: “viaggiando” tra le pagine e’ facile provare empatia o immedesimarsi nelle protagoniste. L’aver messo in luce le gravi difficoltà umane e sociali affrontate dal popolo migrante cinese è sicuramente un pregio di del testo. Tuttavia, Chang non propone soluzioni al problema, ma lascia il lettore libero di trarre le proprie conclusioni morali.
Quel che è certo è che non esistono parole né pagine sufficienti per catturare ogni sfaccettatura del fenomeno, ma Chang conclude, intensamente, dicendo che: “Poteva anche essere un brutto mondo, ma almeno era il loro.”
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Ilaria Gallo [ Articoli | Twitter ]
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Fonte immagine: The Economist
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