Slavoj Žižek è un filosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La nuova lotta di classe. Rifugiati, terrorismo e altri problemi con i vicini (Ponte alle Grazie 2016). Il titolo originale di questo articolo è Sexual is political, Both in the Islamic State and the United States of America.
Il sesso è politica
Sia nello Stato Islamico che negli Stati Uniti d’America
Sui social network palestinesi è in corso una lotta completamente ignorata dall’occidente. Al centro ci sono due personaggi famosi, Mohammed Assaf e Tamer Nafar.
Assaf è un cantante pop di Gaza incredibilmente popolare non solo tra i palestinesi ma in tutto il mondo arabo e perfino in alcune parti d’Europa, sostenuto a Gaza da Hamas e dall’Autorità palestinese, che lo ha nominato ambasciatore culturale della Palestina. Canta con una splendida voce tenere canzoni patriottiche e d’amore arrangiate in stile pop. Politicamente è una figura unificante, al di sopra delle divisioni politiche, tranne che per il suo sostegno alla libertà palestinese.
Nel marzo 2016, Assaf ha dichiarato in un’intervista che, per rispetto della tradizione, non avrebbe permesso alla sorella di cantare in pubblico.
Tamer Nafar, l’artista rap palestinese che è coautore e principale attore del film di Udi Aloni Junction 48, ha risposto ad Assaf con questa toccante lettera aperta:
«Se qualunque altro artista pop dicesse: ‘Secondo la nostra tradizione alle donne non è consentito cantare, e a livello personale ho a cuore queste tradizioni perciò non posso consentire a mia sorella di cantare’, io protesterei. Ma poiché a dire queste parole è Assaf, la nostra Cenerentola di Gaza, sono arrabbiato, ma soprattutto mi sento ferito. Come i palestinesi che si sono uniti nelle strade di Gaza, in Cisgiordania, nella diaspora, nei campi profughi e nei territori del ’48 (cioè Israele) per sostenere Muhammad Assaf, chiediamo ad Assaf di unirsi a noi nelle stesse strade per incoraggiare le ragazze dello Yemen, di Gaza, del Marocco, della Giordania e di Lod, quelle ragazze che sognano di cantare, danzare, scrivere ed esibirsi nel programma Arab idol. Come palestinesi, dobbiamo combattere l’apartheid israeliano e l’apartheid di genere. Il mio sogno è marciare mano nella mano, una donna che tiene la mano di un uomo contro ogni muro di separazione. Non è ragionevole camminare separatamente e allo stesso tempo chiedere l’unità. Vuoi parlare di tradizioni? Un tempo ero un ragazzino arrabbiato nei ghetti di Lod. Non riuscivo a calmarmi finché mamma non mi cantava una canzone di Fairuz. Questa è la tradizione che voglio conservare gelosamente! Perciò, mie care sorelle arabe, cantate più forte possibile, spezzate le frontiere per farci calmare. Libertà per tutti o libertà per nessuno!».
Il film di Aloni affronta la difficile situazione dei giovani “palestinesi israeliani” (palestinesi di famiglie rimaste all’interno di Israele dopo la guerra del 1948), la cui vita quotidiana è una continua lotta su due fronti: contro l’oppressione dello stato israeliano e contro la pressione fondamentalista all’interno della loro stessa comunità. Nelle sue canzoni, Nafar prende di mira la tradizione del “delitto d’onore”, di cui sono vittime le ragazze delle famiglie palestinesi, e per questo è criticato anche dalla sinistra occidentale. Durante una recente visita negli Stati Uniti gli è successa una cosa strana. Dopo che aveva eseguito la sua canzone contro i delitti d’onore nel campus della Columbia University di New York, alcuni studenti antisionisti lo hanno attaccato per aver sollevato la questione, accusandolo di promuovere la visione sionista dei palestinesi come esseri barbari e primitivi (aggiungendo che, se davvero ci sono delitti d’onore, la responsabilità è di Israele, perché l’occupazione obbliga i palestinesi a vivere in condizioni barbare e impedisce la loro modernizzazione).
Questa la nobile replica di Nafar: «Quando criticate me, criticate la mia comunità in inglese per fare colpo sui vostri professori di sinistra. Io canto in arabo per proteggere le donne del mio quartiere».
La tesi di Nafar è che i palestinesi non hanno bisogno dell’aiuto paternalistico della sinistra occidentale né tanto meno del silenzio sui delitti d’onore come segno di “rispetto” per lo stile di vita palestinese. Questi due aspetti – l’imposizione di valori occidentali come i diritti umani e il rispetto per le culture diverse indipendentemente dai loro orrori – sono due facce della stessa mistificazione ideologica. Molto è stato scritto su come l’universalità dei diritti umani universali sia distorta e su come venga data implicitamente la preferenza ai valori e alle norme culturali occidentali (la priorità dell’individuo sulla sua comunità e così via).
Ma dovremmo tener presente che anche la difesa anticolonialista e multiculturalista della molteplicità degli stili di vita è falsa: nasconde gli antagonismi all’interno di ciascuno di questi particolari stili di vita, giustificando atti di brutalità, sessismo e razzismo come espressioni di una specifica cultura che non avremmo diritto di giudicare secondo valori stranieri.
Questa polemica tra Assaf e Nafar rientra in una grande lotta per la differenza sessuale che fa assumere una nuova piega al vecchio motto del 1968: il sesso è politica. Decenni fa, l’ayatollah Khomeini scrisse:
«Noi non abbiamo paura delle sanzioni. Non abbiamo paura di un’invasione militare. Quello che ci spaventa è l’invasione dell’immoralità occidentale».
La paura di cui parla Khomeini, la descrizione di quello che un musulmano dovrebbe temere di più nell’occidente, andrebbe presa alla lettera: i fondamentalisti musulmani non si preoccupano per la brutalità delle lotte economiche e militari, i loro veri nemici non sono il neocolonialismo economico e l’aggressività militare dell’occidente, ma la sua cultura “immorale”.
Lo stesso vale per la Russia di Putin, dove i nazionalisti conservatori definiscono “culturale” il loro conflitto con l’occidente, incentrato, a ben vedere, sulla differenza sessuale: a proposito della vittoria della drag queen austriaca Conchita Wurst all’eurofestival del 2014, lo stesso Putin ha detto durante una cena a San Pietroburgo: “la Bibbia parla dei due generi, uomo e donna, e lo scopo principale della loro unione è generare dei figli”. Come al solito, il fanatico nazionalista Žirinovskij è stato più esplicito e ha definito l’esito della competizione “la fine dell’Europa”, aggiungendo:
«Non c’è limite al nostro sdegno. Non ci sono più uomini o donne in Europa, questo è il punto».
Il vicepremier Dmitrij Rogozin ha twittato che l’esito dell’Eurofestival «mostra ai sostenitori dell’integrazione europea il futuro europeo: una ragazza barbuta!».
C’è una certa misteriosa e quasi poetica bellezza in questa immagine della signora barbuta (che per lungo tempo è stata un classico fenomeno da baraccone) come simbolo dell’Europa unita: non sorprende che la Russia si sia rifiutata di trasmettere l’Eurofestival ai suoi telespettatori, con appelli a una nuova guerra fredda culturale. Si noti che siamo di fronte alla stessa logica di Khomeini: non gli eserciti o i danni economici, quello che si teme davvero è la depravazione morale, la minaccia alla differenza sessuale.
Anche in molti paesi africani e asiatici l’omosessualità è percepita come una conseguenza culturale della globalizzazione capitalistica e uno scardinamento delle forme sociali e culturali della tradizione, quindi la lotta contro i gay sembra un aspetto della lotta anticoloniale. Non è forse così anche per Boko Haram?
Per i suoi esponenti, la liberazione delle donne sembra essere la caratteristica più evidente dell’impatto culturale distruttivo della modernizzazione capitalistica, tanto che Boko Haram (il cui nome è approssimativamente traducibile con “l’istruzione occidentale è proibita”, in particolare l’istruzione delle donne) può presentarsi come una forza che combatte contro l’impatto distruttivo della modernizzazione imponendo una regolamentazione gerarchica dei rapporti tra i sessi.
Ecco dunque l’enigma: perché i musulmani, che sono stati indubbiamente soggetti allo sfruttamento, al dominio e ad altri aspetti distruttivi e umilianti del colonialismo, per tutta risposta prendono di mira quella che (almeno ai nostri occhi) è la parte migliore del retaggio occidentale, cioè l’ugualitarismo e le libertà personali, compresa una sana dose d’ironia e lo scherno di ogni autorità?
La risposta scontata è che il loro bersaglio è scelto bene. Quello che per loro rende così intollerabile l’occidente non è solo che pratica lo sfruttamento e il dominio violento, ma che, aggiungendo al danno le beffe, presenta questa realtà brutale spacciandola per il suo opposto: libertà, uguaglianza e democrazia. Boko Haram si è limitato a portare all’estremo la logica della differenza sessuale normativa.
Il concetto di differenza sessuale, che assegna ai due sessi dei ruoli specifici, impone una norma simbolica che arriva fino alla segregazione urinaria. Il paradosso è che le porte delle toilette separate per genere oggi sono al centro di una battaglia legale e ideologica, soprattutto negli Stati Uniti.
Il 29 marzo 2016, un gruppo di ottanta dirigenti d’azienda, provenienti per lo più dalla Silicon valley e capitanati da due amministratori delegati, Mark Zuckerberg di Facebook e Tim Cook della Apple, hanno firmato una lettera al governatore del North Carolina Pat McCrory per denunciare una legge che obbliga i transgender a usare i bagni pubblici sulla base del sesso registrato alla nascita invece che in base all’identità di genere. Un trans gender dovrebbe farsi cambiare legalmente il sesso sul certificato di nascita per usare i servizi del genere in cui s’identifica. «Siamo delusi dalla sua decisione di firmare questa norma discriminatoria rendendola legge», dice la lettera. «La comunità imprenditoriale, nel suo insieme, ha coerentemente informato i legislatori a ogni livello che norme simili sono negative per i nostri dipendenti e per le aziende».
Perciò la posizione del grande capitale è chiara. Tim Cook può facilmente dimenticarsi delle centinaia di migliaia di lavoratori della Foxconn in Cina che montano i prodotti Apple in condizioni di quasi schiavitù. Ha fatto il suo bel gesto di solidarietà con gli svantaggiati, chiedendo l’abolizione della segregazione di genere. Come spesso succede, la grande impresa ha sposato orgogliosamente la teoria del politicamente corretto.
Il transessualismo riguarda gli individui che vivono una contraddizione tra la loro identità di genere, o espressione di genere, e il sesso di nascita. Pertanto è un termine generale perché, oltre a includere uomini trans e donne trans che s’identificano con il sesso opposto a quello di nascita (specificamente chiamati transessuali se desiderano assistenza medica per la transizione), può comprendere persone genderqueer (le cui identità di genere non sono esclusivamente maschili o femminili, e che possono essere, per esempio, bigender, pangender, genderfluid o agender). Genderqueer, detto anche genere non binario, può riferirsi a una o più delle definizioni seguenti: avere una sovrapposizione d’identità di genere o confini indefiniti tra i generi; avere due o più generi (essere bigender, trigender o pangender); non avere genere (essere agender, nongendered, genderless, genderfree o neutrois); muoversi tra i generi o avere un’identità di genere fluida (genderfluid); oppure essere third gender o other gendered, una categoria che abbraccia chi non dà un nome al proprio genere.
La visione dei rapporti sociali alla base del transessualismo è il cosiddetto postgenderism, un movimento sociale, politico e culturale che sostiene l’eliminazione volontaria del genere nella specie umana attraverso l’applicazione di biotecnologie avanzate e tecnologie riproduttive assistite.
I sostenitori del transessualismo affermano che i ruoli di genere, la stratificazione sociale e le disparità e le differenze fisiche e cognitive in generale danneggiano gli individui e la società. Dato il grande potenziale delle moderne tecniche di riproduzione assistita, i post gender ritengono che il sesso a scopi riproduttivi diventerà obsoleto e che ciascun essere umano sarà in grado indifferentemente di decidere se essere padre o madre e questo, ritengono, renderà irrilevanti i generi definiti.
La prima cosa da osservare in proposito è che il trans genderismo va a braccetto con l’attuale tendenza dell’ideologia predominante di rifiutare ogni particolare appartenenza e celebrare la fluidità di qualunque identità. L’economista e sociologo francese Frédéric Lordon di recente ha attaccato la sinistra antinazionalista, liquidando le sue richieste come «grottesche pretese dei borghesi» per una «liberazione dall’appartenenza, senza ammettere quanto essi stessi si avvantaggino della loro appartenenza».
Lordon contrappone questa appartenenza nascosta alla «realtà della mancanza di uno stato, l’incubo dell’assoluta non inclusione di chi sopravvive come un clandestino senza diritti, di fatto combattendo per la cittadinanza, per l’appartenenza. Rinnegare gli affetti nazionali nel territorio europeo consentendoli ai subalterni, romanticamente e con condiscendenza, è pura ipocrisia. Non si è mai totalmente liberi dall’appartenenza nazionale: diventiamo proprietà di una nazione dal nostro primissimo giorno». Lordon qui prende di mira Habermas e Ulrich Beck per il loro universalismo senza vita: oggi in Europa l’appello nazionalista e populista alla sovranità in risposta alla sua confisca finanziaria «segnala l’urgenza di ripensare lo stato nazionale in rapporto all’emancipazione collettiva».
In questo Lordon ha ragione: è facile osservare come le élites intellettuali “cosmopolite” disprezzino gli abitanti attaccati alle loro radici, ma appartengano ad ambienti quasi esclusivi di élites senza radici, e la loro cosmopolita mancanza di radici è il segno di una forte e profonda appartenenza. Proprio per questo è indecente mettere sullo stesso piano élites nomadi che volano per il mondo e profughi disperati alla ricerca di un luogo sicuro a cui appartenere, proprio come mettere sullo stesso piano una ricca donna occidentale a dieta e una profuga che muore di fame.
Per giunta, qui ritroviamo un vecchio paradosso: più si è emarginati ed esclusi, più si può affermare la propria identità etnica.
Il panorama del politicamente corretto è strutturato così: gli individui lontani dal mondo occidentale possono rivendicare la propria identità etnica senza essere definiti identitari e razzisti (i nativi americani, i neri eccetera); più ci si avvicina ai famigerati maschi eterosessuali bianchi, più questa rivendicazione diventa problematica: gli asiatici vanno ancora bene, italiani e irlandesi forse, con tedeschi e scandinavi è già un problema. Tuttavia, questo divieto agli uomini bianchi di rivendicare una particolare identità (perché fornirebbe un modello di oppressione degli altri) anche se si presenta come l’ammissione della loro colpevolezza, di fatto gli conferisce una posizione centrale: lo stesso divieto di affermare la propria particolare identità li trasforma nel punto di mezzo neutrale universale, il luogo da cui la verità dell’oppressione degli altri è accessibile. Lo squilibrio pesa anche nella direzione contraria: i paesi europei impoveriti si aspettano che i paesi avanzati dell’Europa occidentale sopportino tutto il peso dell’apertura multiculturale, mentre loro possono permettersi il patriottismo.
È facile cogliere una tensione simile nel transgenderismo. I soggetti transgender appaiono trasgressivi perché sfidano qualunque divieto, ma allo stesso tempo hanno comportamenti iperemotivi, si sentono oppressi dalla scelta forzata (“perché dovrei decidere se sono un uomo o una donna?”) e hanno bisogno di un luogo dove potersi riconoscere pienamente. Se insistono con tanto orgoglio sul loro essere “trans”, al di là di ogni classificazione, perché avanzano una richiesta così pressante per avere un luogo appropriato? Perché, quando si trovano davanti a bagni separati per genere, non agiscono con eroica indifferenza? Potrebbero dire: “Sono transgender, un po’ di questo e di quello, un uomo vestito da donna, perciò posso benissimo scegliere il bagno che voglio”. Inoltre, i “normali” eterosessuali non hanno forse un problema simile? Non trovano forse difficile, spesso, riconoscersi in identità sessuali predefinite? Si potrebbe perfino sostenere che uomo (o donna) non è un’identità certa, ma piuttosto un certo modo di evitare un’identità.
Possiamo prevedere con sicurezza che arriveranno nuove richieste anti discriminatorie: perché non matrimoni tra più persone? Cosa giustifica il limite imposto dal matrimonio binario? Perché non addirittura un matrimonio con animali? Dopo tutto sappiamo già quanto sono sensibili gli animali. Escluderli dal matrimonio non mette la specie umana in una posizione d’ingiusto privilegio?
C’è un’unica soluzione a questa impasse: è quella che si usa nel campo della raccolta differenziata dei rifiuti. I cassonetti oggi sono sempre più differenziati: ce ne sono per la carta, il vetro, le lattine, il cartone, la plastica. E già qui le cose a volte si complicano: se devo smaltire un sacchetto di carta o un quaderno con una minuscola striscia di plastica, qual è il posto giusto, la carta o gli imballaggi? Non stupisce se a volte sui cassonetti troviamo istruzioni dettagliate sotto l’indicazione generale “carta”: libri, giornali eccetera, ma non libri con la copertina rigida o libri con una fodera di plastica. In questi casi, eliminare i rifiuti correttamente richiede fino a mezz’ora di attenta lettura e decisioni spinose. Per facilitare le cose, esiste un ulteriore cassonetto per l’indifferenziata, dove gettiamo tutto quello che non soddisfa i criteri specifici degli altri cassonetti, come se, ancora una volta, esistesse un’immondizia in quanto tale, l’immondizia universale.
Non dovremmo fare altrettanto con i bagni pubblici?
Dal momento che nessuna classificazione può soddisfare tutte le identità, non si dovrebbe aggiungere ai generi abituali (due, tre o quanti sono) una porta per il “genere generale”?
Questo fallimento di ogni classificazione che cerchi di essere esaustiva non è dovuto all’abbondanza empirica di identità che sfidano la classificazione ma, al contrario, alla persistenza della differenza sessuale come reale, impossibile da categorizzare e allo stesso tempo inevitabile. La molteplicità delle posizioni di genere (maschile, femminile, gay, bigender, transgender e via dicendo) ruota intorno a un antagonismo che ci sfugge costantemente. I gay sono maschili, le lesbiche femminili, i transessuali praticano la transizione dall’uno all’altro, il travestitismo combina le due cose, il bigender fluttua tra l’uno e l’altro: comunque la mettiamo il “due” è in agguato.
È quindi cruciale prendere atto dell’opposizione che oggi si sta delineando: da una parte la violenta imposizione di una forma simbolica fissa di differenza sessuale come gesto fondamentale per contrastare la disintegrazione sociale; dall’altra la totale fluidificazione dei generi, la dispersione della differenza sessuale in configurazioni multiple. Mentre in una parte del mondo gli aborti e i matrimoni gay ricevono sostegno come chiaro segno di progresso morale, in altre zone dilagano l’omofobia e le campagne contro l’aborto.
Il grande errore nell’affrontare questa opposizione è cercare la misura giusta tra i due estremi. Quello che bisognerebbe fare, invece, è evidenziare ciò che i due estremi hanno in comune: un mondo pacifico dove la tensione polemica della differenza sessuale scompare o in una chiara e stabile distinzione gerarchica dei sessi o nella gioiosa fluidità di un universo desessualizzato. E non è difficile distinguere in questa fantasia di un mondo pacifico quella di una società senza antagonismi sociali. In parole povere, senza lotta di classe.
(Traduzione da Internazionale n.1155)
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