Le donne nella Resistenza furono 100mila, delle quali 4653 furono arrestate, torturate e condannate. 2750 furono deportate. 623 morirono fucilate o cadute in combattimento. Alle donne furono assegnate 19 medaglie d’oro al valore militare, di cui 15 alla memoria.
La Resistenza rappresentò per le donne la conquista della cittadinanza politica.
Alcune delle donne martiri della Resistenza hanno conosciuto violenze inenarrabili prima di essere uccise. Così Irma Bandiera (1915-1944), staffetta e membro della VII Gap a Bologna; arrestata, torturata, accecata, infine uccisa a mitragliate dai tedeschi per non aver parlato; così Gabriella Degli Esposti (1912-1944), contadina comunista di Castelfranco Emilia, madre di due bambine piccole, responsabile dei Gap, organizzatrice di proteste delle donne per il pane; arrestata e torturata, fucilata (dopo essere stata squarciata – era incinta – e aver avuto i seni tagliati); così Anna Maria Enriques Agnoletti (1907-1944), di padre ebreo, fiorentina benestante, impiegata alla Biblioteca vaticana. Dopo esser stata battezzata nel 1938, entrò a Firenze nel partito cristiano-sociale. Arrestata, venne torturata e poi fucilata. Così ancora Natalina Vacchi (morta a Ravenna nel 1944), comunista dal ’42, salvatrice di Arrigo Boldrini l’8 settembre, poi staffetta e responsabile dei servizi sanitari, catturata e impiccata, lasciata penzolare per giorni dalla forca. E non si dimentichi Clorinda Menguzzato, contadina trentina, staffetta e infermiera nella Brigata «Ghirlanda» della Divisione Gramsci: catturata dai tedeschi fu sottoposta a ogni genere di sevizie, violentata a più riprese, fatta azzannare da cani, pur di strapparle informazioni sulla dislocazione delle basi partigiane in Valsugana. Non parlò e fu infine fucilata il 10 ottobre 1944: aveva soltanto 19 anni. (Giorgio Vecchio, “La resistenza delle donne”, pagg. 31-36)
Ha raccontato Tina Anselmi:
E venne il 26 settembre del 1944. Io ero a scuola a Bassano del Grappa, dove frequentavo l’istituto magistrale, quando i fascisti e i nazisti costrinsero tutti gli studenti, e la popolazione, a recarsi in viale Venezia, oggi viale dei Martiri, ad assistere all’impiccagione di quarantatre giovani che erano stati presi dopo un rastrellamento sul Grappa. Un macabro spettacolo, un monito a chi osasse ribellarsi, quei giovani presi come ostaggi e che, in base al principio etico secondo il quale non è responsabile chi non compie l’atto – e loro non erano responsabili di alcun atto di guerra -, non avrebbero dovuto essere condannati. […] Ritornati in classe scoppiò tra noi compagne una discussione violenta, ci siamo perfino picchiate; c’era chi diceva che i soldati avevano fatto bene perché quella era la legge, e loro l’avevano fatta rispettare; chi difendeva le ragioni dei partigiani perché la legge non può andare contro i diritti della persona. Questo episodio, l’ultimo di tanti, ci obbligò a dare una risposta concreta a un interrogativo che ci ponevamo da molti mesi: cosa possiamo fare? Stiamo qui e guardiamo? Potevamo assistere alla sofferenza, a quello che avveniva intorno a noi senza fare niente? Dovevamo agire per non aggravare la situazione. Per non sentirci corresponsabili dei massacri. (Ibid. pagg. 44-45)