Dobbiamo badare al raccolto? Monitorare i pascoli, controllare i livelli dell’acqua nella cisterna, abbeverare le bestie, assicurarci che i canali di scolo non siano intasati? Abitiamo sotto tetti di paglia e fango soggetti alle intemperie? Abbiamo scarpe rattoppate, automobili permeabili? Dobbiamo tenere diari sulla fioritura dei cieliegi come nel Giappone antico?
No, no, no, e no. E allora che ci frega se piove?
Articolo di Daniela Ranieri, Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2016
I compagni di ascensore ne sono ogni volta scioccati. I Tg parlano di “bombe d’acqua”, e ci manca poco che diamo nomi alle precipitazioni come in America ai tornado. Da tempo ormai non piove: “diluvia”. Si spalancano abissi di terrore, paventiamo catastrofi, ci sintonizziamo sui canali Meteo h24 per sapere quando smetterà.
Ma perché siamo tanto ossessionati dal clima – non inteso come destino atmosferico del pianeta, di cui non ci frega in definitiva niente – ma dal tempo che fa sulle nostre teste?
Una risposta potrebbe essere che drammatizziamo i normali eventi atmosferici per lenire la cattiva coscienza di ignorare quelli, abnormi, provocati da noi.
L’asfalto delle città, dove si concentra la vita industriosa e in fondo l’unica che ci interessi, non si concilia con l’acqua che scende dal cielo, un’intrusa in un quadro altrimenti perfettamente funzionante. L’allarme sul riscaldamento globale non va più di moda (ma il candidato alle primarie democratiche per la presidenza degli Stati Uniti Bernie Sanders lo ha definito “una minaccia più grave del terrorismo”).
Ci annoia che si moralizzino i nostri comportamenti e, come in Libertà di Jonathan Franzen (Einaudi), chi ha a cuore il cambiamento climatico appare sempre sotto lo stigma del tecnofobico sciroccato e fondamentalista.
Della vita degli altri terrestri viventi non ci importa: come ricorda John Berger nel magnifico Perché guardiamo gli animali? (Il Saggiatore), “gli animali stanno scomparendo. Negli zoo sono un monumento vivente alla loro stessa scomparsa”.
Non ci importa solo che non piova. Ci lamentiamo che la primavera tarda ad arrivare, poi ci lamentiamo perché fa troppo caldo. Il freddo e il vento ci allarmano come fossero segnali dell’Apocalisse.
Vogliamo la globalizzazione del clima: perché non può essere, tutto il mondo, una specie di enorme centro commerciale di Dubai, Vimercate, Amburgo o Austin, Texas? Col termostato regolato su quei 18-19 gradi che ci consentono di indossare ovunque gli stessi abiti della stessa catena che si trova al centro di Lisbona, all’aeroporto di Newark e sul corso di Novara?
Fosse per noi, al posto dell’atmosfera metteremmo un enorme condizionatore che tari il clima mondiale su un accettabile sereno temperato continentale, uguale e standardizzato come le colazioni delle catene di hotel. Basandoci però solo su fallaci ricordi d’infanzia e racconti di parenti, facciamo previsioni, confrontiamo dati, registriamo tendenze. Analfabeti climatici, siamo alla saturazione.
L’iPhone ci avvisa se piove o c’è sole in un tempo minore a quello che occorrerebbe a guardare fuori dalla finestra. Certo, anche un tempo la natura era amica o ostile compatibilmente con le attività umane; ma oggi le chiediamo di più: vogliamo che sia neutra. Le siamo indifferenti. Abbiamo interrotto “la reciproca intelligenza tra uomo e cosmo” (Giorgio Manganelli).
È con qualche sorpresa che in Storia naturale del clima di Wolfang Behringer (Bollati Boringhieri) si apprende che l’era che stiamo vivendo, il neozoico, è un’era glaciale. E che nei periodi interglaciali pioveva e faceva molto più caldo di oggi.
E che se Homo Sapiens è figlio di un riscaldamento globale naturale dentro un’era glaciale (l’olocene), non si sa quali effetti possa provocare il global warming artificiale in questa era su animali e esseri umani.
Vallo a spiegare al compagno d’ascensore.
Fonte immagine: Il Fatto Quotidiano
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