Rivoluzione e Stato islamico

Festa dell'Essere Supremo (Pierre-Antoine Demachy, 1794)

Festa dell’Essere Supremo (Pierre-Antoine Demachy, 1794)

La virtù, senza la quale il Terrore è cosa funesta; il Terrore, senza il quale la virtù è impotente. Il Terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile. Esso è dunque una emanazione della virtù…

Maximilien de Robespierre, Sui principi della moralità politica (1794)

Dopo una lunga ricerca sul campo, l’antropologo Scott Atran propone una lettura controcorrente del nuovo terrorismo jihadista.

ISIS is a revolution

di Scott Atran

Dopo l’ennesima strage commessa in nome del cosiddetto Stato islamico, è facile perdere di vista un fatto importante.

Con le nostre pallottole, le nostre bombe e la nostra arroganza non solo non stiamo riuscendo a impedire che l’estremismo islamico si diffonda, ma sembra quasi che lo stiamo aiutando.
Come si spiega il fallimento della guerra al terrorismo e di tutti gli altri tentativi per contrastare la diffusione dell’estremismo violento?

L’errore è stato reagire con rabbia e voglia di vendetta senza cercare di capire il carattere rivoluzionario del revivalismo radicale sunnita. Questo movimento di rinascita religiosa è un fenomeno dinamico e controculturale di proporzioni storiche guidato dall’Is (lo Stato islamico di Iraq e Siria, o Isil, Stato islamico dell’Iraq e del Levante). In meno di due anni, ha assunto il controllo di centinaia di migliaia di chilometri quadrati di territorio e di milioni di persone. E dispone dell’esercito di volontari più numeroso e vario dai tempi della seconda guerra mondiale.

Quelli che di solito le Nazioni Unite considerano atti insensati di raccapricciante violenza, per i seguaci dell’Is sono parte di una nobile campagna di purificazione fatta di omicidi sacrificali e autoimmolazioni: “Sappi che il paradiso è all’ombra delle spade”, recita un hadith di Maometto (gli hadith sono detti e fatti attribuiti al profeta dell’islam) che è diventato uno dei motti dei combattenti dell’Is.

Questo è il piano di violenza che Abu Bakr al Baghdadi, l’autoproclamato califfo dello Stato islamico, aveva in mente quando ha invocato “vulcani di jihad”: la creazione di un arcipelago jihadista di dimensioni planetarie che alla fine si unisca per distruggere il mondo di oggi e creare un nuovo-vecchio mondo di giustizia sotto il vessillo del profeta. Una delle tattiche fondamentali di questa strategia è istigare alla violenza i simpatizzanti di altri paesi: fate quello che potete, con quello che avete, ovunque siete, ogni volta che è possibile.

Per capire questa rivoluzione, la mia équipe di ricerca ha condotto decine di interviste e di test con giovani che vivono a Parigi, Londra e Barcellona, e con combattenti dell’Is catturati in Iraq e militanti del Fronte al Nusra, l’affiliato di Al Qaeda in Siria.

Abbiamo scelto il nostro campione soprattutto tra i giovani provenienti da quartieri dove erano stati già commessi atti di violenza o di sostegno al jihad, come le zone periferiche di Clichy-sous-Bois ed Épinay-sur-Seine a Parigi, e i quartieri di Sidi Moumen a Casablanca e di Jamaa Mezuak a Tetuan, in Marocco.

Mentre in occidente molti liquidano l’estremismo islamico definendolo semplicemente nichilistico, dalla nostra ricerca è emerso qualcosa di molto più inquietante: l’irresistibile fascino di una missione che mira a cambiare e salvare il mondo.

L’occidente non prende sul serio questa missione.

Olivier Roy, che di solito è un pensatore sottile e profondo, ha scritto su Le Monde che gli attentatori di Parigi erano disadattati, emarginati che non sapevano quasi nulla di religione e di geopolitica, e non avevano nessun torto storico reale da rivendicare. Per dare sfogo al loro nichilismo avevano cavalcato l’onda dell’estremismo islamico perché è il più grande e il più duro movimento controculturale che esista. Ma la rivoluzione mondiale dell’Is non è affatto un carrozzone di falliti.

Anche se è stato attaccato ai fianchi da forze interne ed esterne, lo Stato islamico non si è indebolito in nessun modo, anzi, nelle zone che controlla sta mettendo radici e sta estendendo la sua influenza in tutta l’Europa, l’Asia e l’Africa. Nonostante le recenti rassicurazioni della Casa Bianca, i servizi segreti statunitensi dicono che è difficile contenere l’Is.

Le ripetute affermazioni secondo cui sarebbe in declino e sulla via dell’inevitabile sconfitta suonano vuote a chiunque ne abbia avuto un’esperienza diretta.

Solo i combattenti curdi e le forze guidate dall’Iran sono riusciti in alcuni casi a sconfiggerlo in battaglia, e solo con un consistente appoggio aereo da parte della Francia e degli Stati Uniti.

Nonostante la nostra incessante propaganda che accusa l’Is di essere violento e crudele – il che, certo, è vero – ci rifiutiamo di riconoscere il suo vero fascino, e ancora meno l’idea che possa essere una fonte di gioia per i suoi militanti. I volontari, soprattutto giovani, che si offrono di combattere per il movimento fino alla morte provano una gioia che nasce dal sentirsi uniti a persone come loro nella lotta per una causa gloriosa, e al tempo stesso la gioia che nasce dallo sfogo della rabbia e dal piacere della vendetta (la cui dolcezza, dice la scienza, può essere provata sia dal cervello sia dal corpo).

E c’è anche la gioia subliminale provata da tutti quelli che nella regione rifiutano la violenza omicida dello Stato islamico, ma vorrebbero la rinascita di un califfato musulmano e la fine di un ordine basato sugli stati nazione inventati e imposti dalle grandi potenze. È un ordine che non ha funzionato, che gli Stati Uniti, la Russia e i loro alleati stanno cercando di far risorgere, e che molti nella regione considerano la radice delle loro sofferenze. Ma la rivoluzione dell’Is sicuramente non è un semplice desiderio di tornare al passato.

Pensare che sia un sogno di ritorno al medioevo è come credere che il Tea party voglia tornare agli Stati Uniti del 1776.

“Non vogliamo riportare la gente al tempo dei piccioni viaggiatori”, ci ha detto l’addetto stampa del movimento Abu Musa a Raqqa, poi ucciso in un raid nell’agosto del 2014. “Al contrario, vogliamo sfruttare il progresso. Ma in un modo che non contraddica la religione”.

Il califfato vuole creare un nuovo ordine basato sulla cultura di oggi. Se non prendiamo atto delle sue aspirazioni e affrontiamo il problema solo con mezzi militari non faremo altro che alimentare la passione dei suoi militanti e sacrificare un’altra generazione alla guerra. Quando trattiamo lo Stato islamico come se fosse solo una forma di terrorismo o di estremismo violento non facciamo che nasconderci qual è il vero pericolo. La cosa importante per la storia è se questi movimenti sopravvivono e resistono nel tempo.

La nostra specie– l’unica a essere autopredatoria – deve il suo successo al fatto di essere pronta a versare sangue, compreso il proprio, non solo per la propria famiglia, la tribù, la ricchezza e il potere, ma anche per una causa più alta. Tutto questo è cominciato a partire dal periodo assiale, che risale a più di duemila anni fa. A quell’epoca sorsero le prime grandi civiltà sotto l’occhio attento di potenti dèi, che punivano senza pietà chi trasgrediva la morale, garantendo che negli imperi multietnici anche gli stranieri lavorassero e combattessero uniti.

Chiamatela “dio” o con il nome di qualsiasi ideologia laica preferiate, compresi tutti i grandi “-ismi” moderni: colonialismo, socialismo, anarchismo, comunismo, fascismo e liberismo.

Nel Leviatano (1651), Thomas Hobbes giudica il sacrificio per un’ideale trascendente “il privilegio dell’assurdità, a cui nessuna creatura vivente è soggetta all’infuori dell’uomo”. Gli esseri umani compiono le loro più grandi imprese, buone o cattive che siano, in nome di idee che danno un senso alla loro vita. In un universo intrinsecamente caotico, solo gli uomini riconoscono che la morte è inevitabile, e provano l’impulso irrefrenabile di superare questa tragica consapevolezza cercando di capire chi sono e perché sono qui.

Nel suo libro L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871), Charles Darwin definisce questa virtù come la predisposizione morale “al patriottismo, alla fedeltà, all’obbedienza, al coraggio e alla comprensione”, una predisposizione che nella spirale storica della competizione per la sopravvivenza e il predominio si ritrova soprattutto nei gruppi vincenti. È ai valori sacri, immuni da compromessi materiali, che ci sentiamo più vincolati. Tutte le culture difendono la famiglia, la patria, le associazioni religiose e politiche.

La dedizione a questi valori può produrre risultati sproporzionati rispetto a quelli previsti. Spesso questi valori, legati a convinzioni del tipo “il nostro dio è grande, immateriale e onnipotente” o “il libero mercato ha sempre ragione”, sono attribuiti alla provvidenza o alla natura. Non possono mai essere verificati con mezzi empirici ed è impossibile spiegarne il significato. L’espressione “valori sacri” ha una connotazione religiosa, ma può anche riferirsi a una santità laica, come nel caso del luogo degli attacchi dell’11 settembre 2001.

Le idee fondanti delle grandi ideologie e lo stesso concetto quasi religioso di nazione sono stati ritualizzati nei canti, nelle cerimonie e nei sacrifici. “Nulla che sia umano mi è estraneo”, diceva Terenzio, lo schiavo romano divenuto commediografo che ha lasciato al mio campo di ricerca, l’antropologia, un messaggio importante: dobbiamo provare empatia, anche se non necessariamente simpatia, per chi ha una cultura morale diversa dalla nostra. Il suo è un invito a comprendere.

Se riusciamo a capire perché esseri umani per altri versi normali sono disposti a morire uccidendo altri esseri umani che non hanno fatto del male a nessuno, forse possiamo evitare di uccidere ed essere uccisi noi stessi.

Nelle nostre democrazie liberali, gli omicidi di massa intenzionali sono considerati abietti e disumani. Ma nel corso di buona parte della storia, e in tutte le culture, la violenza contro altri gruppi è sempre stata considerata una virtù morale, uno strumento per giustificare l’uccisione di masse innocenti. Inoltre la brutalità terrorizza sia i nemici sia chi si limita a guardare.

I leader curdi hanno dichiarato ai miei ricercatori che quando circa 400 militanti dello Stato islamico sono arrivati con un convoglio di circa 80 camion per liberare i prigionieri sunniti (e massacrare più di 600 detenuti sciiti), dalla prigione di Badoush a Mosul, la seconda città dell’Iraq, un esercito iracheno di 18mila uomini guidati da ufficiali addestrati dagli statunitensi si è improvvisamente dileguato. Quando ho chiesto a un soldato sunnita, che si era unito ai peshmerga curdi sul fronte Mosul-Erbil, perché i suoi compagni erano fuggiti, mi ha risposto semplicemente: “Per salvarsi la pelle”.

La decisione di blindare Boston dopo le bombe alla maratona del 2013 rivela una paura simile e rafforza la mancanza di fiducia nelle nostre società e nei nostri valori, che è esattamente l’obiettivo degli attacchi terroristici. La potenza della Luftwaffe nei blitz aerei tedeschi durante la seconda guerra mondiale non spaventò così tanto il governo britannico e la popolazione di Londra. Oggi, basta che cominci a circolare un video in cui l’Is minaccia un attacco a New York perché le autorità si precipitino a rassicurare il pubblico. L’esposizione mediatica, che nella nostra epoca è l’ossigeno del terrorismo, non solo amplifica la percezione del pericolo, ma rende più concreta la minaccia per la società.

Questo vale oggi più che mai, perché i mezzi di informazione sono fatti più per solleticare il pubblico che per informarlo.

Per l’Is è diventato un gioco da bambini trasformare la nostra macchina della propaganda nella loro, incoraggiando un nuovo potentissimo tipo di guerra asimmetrica che potremmo facilmente contrastare se informassimo in modo più responsabile e meno enfatico. Ma non lo facciamo. Il risultato è pericoloso e insensato.

Il dipartimento di giustizia statunitense, con il sostegno di una schiacciante maggioranza del congresso e dei mezzi d’informazione, ora considera una comune pentola a pressione “un’arma di distruzione di massa” quando viene usata dai terroristi. Questa decisione ridicola mette un banale utensile da cucina sullo stesso piano di una bomba termonucleare. In questo modo si minimizza la pericolosità delle vere armi di distruzione di massa, rendendo più facile accettarle e concepirne l’uso.

Nell’iperrealtà di oggi, anche inviare un sms è un atto di guerra. La manipolazione dei nostri mezzi d’informazione da parte dell’Is crea un falso senso di distruzione di massa incombente e al tempo stesso distoglie l’attenzione da qualsiasi pericolo futuro reale.

La tattica di commettere atti di guerra asimmetrici e stragi spettacolari per destabilizzare l’ordine sociale esiste dagli albori della storia. I gruppi politici o religiosi violenti hanno sempre provocato i loro nemici per spingerli a reagire in modo sproporzionato. Si commettevano atrocità per costringere gli avversari a mettersi sulla difensiva. La violenza dello Stato islamico, come la violenza rivoluzionaria di molti movimenti che lo hanno preceduto, potrebbe essere meglio descritta da quello che Edmund Burke chiama il “sublime”: una predisposizione o, meglio, un bisogno e una passione per “l’orrore affascinante”, una sensazione di forza e di fatalità che sconfina nell’infinito, nell’ineffabile e nell’ignoto.

“Nessuna passione deruba così efficacemente la mente di tutto il suo potere di agire e ragionare quanto la paura”, osserva Burke nel suo saggio del 1756 Ricerca filosofica sull’origine delle idee del sublime e del bello. “Poiché la paura è il timore del dolore e della morte, essa agisce in un modo che sembra il vero dolore. Quindi, qualunque cosa sia terribile alla vista è anche sublime“. Ma perché il terrore possa agire al servizio del sacro e del sublime “è necessaria l’oscurità”, prosegue Burke. “Quei governi dispotici che basano il loro potere sulle passioni degli uomini, e principalmente sulla paura, sottraggono il più possibile i loro capi alla vista della moltitudine“. E Al Baghdadi, il principe dei fedeli, corrisponde sicuramente a questa descrizione.

Più in generale, come osservava Charles de Gaulle nel 1932, “non può esserci prestigio senza mistero, perché la familiarità genera disprezzo“, quindi “i grandi leader hanno sempre spettacolarizzato le loro apparizioni”, per “catturare la mente degli uomini al fine di farli andare oltre se stessi e agire in nome di una causa gloriosa e unificante”.

Il sublime è anche intensamente fisico e viscerale, profondamente collegato alle emozioni e all’identità. Chi ne rimane affascinato è schiavo invece che padrone delle sue passioni. Non esiste il lavaggio del cervello, questa fandonia è un residuo della storia dei soldati alleati che durante la guerra di Corea sarebbero stati manipolati psicologicamente dagli stregoni cinesi come cani di Pavlov.

In Mein Kampf (1925) Adolf Hitler dichiarava che “tutti i grandi movimenti sono movimenti popolari. Sono le eruzioni vulcaniche di passioni e di emozioni umane, accese dalla spietata dea della disperazione o dalla torcia della parola”. Ma le parole devono essere inserite nella cornice spettacolare del sublime. Quando Charlie Chaplin e il regista francese René Clair videro insieme l’inno cinematografico al nazionalsocialismo di Leni Riefenstahl, Il trionfo della volontà (1935), Chaplin rise, ma Clair rimase terrorizzato, temendo che, se il film fosse circolato di più, avrebbe determinato la fine dell’occidente.

O soldati dello Stato islamico, continuate a mietere soldati“, tuonava Al Baghdadi nel 2014, “fate esplodere ovunque vulcani di jihad” e “smembrate i nemici come gruppi e come individui” per liberare l’umanità dal “sistema satanico globale basato sull’usura degli ebrei e dei crociati“. Un appello che molti hanno raccolto e che ha spinto almeno alcuni a commettere delle atrocità.

Da un sondaggio condotto nell’agosto del 2014 è emerso che un quarto dei giovani francesi di qualsiasi credo tra i 18 e i 24 anni di età aveva un atteggiamento “in parte favorevole” nei confronti dellIs.

Questi risultati non si sono ripetuti, ma dopo l’attacco a Charlie Hebdo del gennaio 2015 la nostra équipe ha pensato di verificare quanti in Francia e Spagna erano a favore o contro certi valori professati dallo Stato islamico, come il rigido rispetto della sharia tipico del califfato, contrapposti alla libertà religiosa e alla tolleranza del dissenso proprie delle democrazie.

Tra i giovani dei quartieri più degradati della periferia parigina abbiamo riscontrato un’ampia accettazione, se non una condivisione dei valori dell’Is e perfino delle brutalità commesse in suo nome. In Spagna non è emersa molta disponibilità a lottare per difendere i valori democratici dagli attacchi più violenti.

Poco importa se, come ha scritto J.M. Berger sull’Atlantic, “le persone che simpatizzano con l’ideologia dello Stato islamico costituiscono meno dell’1 per cento della popolazione mondiale e i partecipanti attivi e volontari al progetto del califfato costituiscono sicuramente meno dello 0,1 per cento“.

Nel corso della storia, ben poche avanguardie rivoluzionarie hanno ottenuto subito il sostegno di una percentuale significativa della popolazione mondiale, o della loro regione d’origine.

Nel 2007, quando la presenza di truppe statunitensi in Iraq era più numerosa, l’ala irachena di Al Qaeda, che sarebbe poi diventata l’Is, perse tre quarti dei suoi guerriglieri e per più di un anno ogni mese fu uccisa in media una decina di sue figure chiave. Ma l’organizzazione è sopravvissuta e il gruppo è rimasto unito oltre ogni aspettativa, nonostante il caos della guerra civile siriana e gli scontri tra le fazioni irachene.

Dalla seconda guerra mondiale in poi, quasi tutti i movimenti rivoluzionari sono risultati vittoriosi con un decimo delle armi e degli uomini di cui disponevano gli stati contro cui combattevano. Gli studi comportamentali condotti nelle zone dove è in atto un conflitto indicano che valori sacri come la liberazione nazionale, dio e il califfato, propagandati da personaggi devoti alla causa, suscitano grande entusiasmo e impegno nella popolazione, rendendola capace di resistere e spesso di avere la meglio su eserciti più potenti che fanno affidamento su incentivi come la paga e le promozioni o le minacce di punizioni.

Come dimostrano la storia e gli studi empirici, quello che conta per il successo di una rivoluzione è la dedizione alla causa e ai compagni. Anche davanti a iniziali fallimenti, e spesso a devastanti sconfitte, questa dedizione può compensare condizioni di schiacciante inferiorità.

Nel 1776, i coloni americani erano insoddisfatti non per motivi economici ma perché avevano la sensazione che venissero negate alcune verità “sacre e innegabili” (per citare le parole di Thomas Jefferson nella Dichiarazione d’indipendenza). Si dichiaravano disposti a sacrificare “le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore” per combattere contro il più potente impero del mondo. Appena scoppiò la rivoluzione a New York, che all’epoca aveva 20mila abitanti, la Gran Bretagna inviò la sua marina con 30mila uomini per fermarla e all’inizio quasi annientò l’esercito di George Washington. I malconci superstiti stavano per tornare a casa quando Washington fece un appello ispirato: “Avete l’occasione di rendere un servizio alla causa della libertà che probabilmente non potrete mai più renderle“. Così nel gelido inverno l’esercito si ricompattò a Valley Forge, pronto a sopportare qualsiasi avversità.

Ma il tipo di democrazia liberale che prese il via dalla rivoluzione americana non se l’è mai cavata molto bene con i conflitti etnici e religiosi, soprattutto quando, come in buona parte del Medio Oriente e dell’Asia centrale, si fondano su divisioni tribali.

La democrazia mise per la prima volta radici nelle colonie americane perché all’epoca erano territori che avevano il più alto standard di vita del mondo e offrivano a chiunque non fosse un nativo o uno schiavo africano opportunità senza precedenti di conquistare territori praticamente illimitati e di essere relativamente libero di realizzare le proprie aspirazioni. In Europa occidentale, la democrazia si diffuse nel corso dell’ottocento sotto la tutela di governi autoritari. La Francia di Napoleone III non solo continuò, come quella di Bonaparte, a promuovere la cultura laica e il pluralismo religioso, ma andò anche oltre introducendo le elezioni politiche, consentendo che ci fosse un’opposizione organizzata e legalizzando il diritto allo sciopero. In Europa, molte persone furono strappate alle terre che occupavano per diritto ancestrale per andare a lavorare soprattutto nei centri urbani della rivoluzione industriale, vincolate nel lavoro e nella guerra da un nuovo e più ampio concetto d’identità nazionale.

In questo contesto cominciarono a nascere le istituzioni liberali, che permettevano a persone che fino a quel momento non si conoscevano di lavorare e, se era necessario, di combattere insieme. Furono introdotte l’istruzione gratuita, una stampa in grado di accedere a un’ampia gamma di informazioni, l’uguaglianza tra tutti i cittadini davanti alla legge (almeno in linea di principio) e una cultura sempre più tollerante nei confronti delle minoranze e degli stranieri. Senza il sostegno dell’identità nazionale, dei valori e delle istituzioni liberali, le decisioni popolari e le elezioni portano solo alla tirannia della maggioranza, come dimostrano l’antica Atene e l’Iraq del dopo Saddam.

La differenza di valori è ulteriormente aggravata dalle divergenze storiche. L’occidente e il mondo arabo e musulmano hanno vissuto per molto tempo storie separate e parallele. In occidente, la maggior parte delle persone crede che la storia sia cominciata con i sumeri nell’antica Mesopotamia intorno al ventiseiesimo secolo avanti Cristo. La terra dei sumeri, che aveva il suo centro nella parte meridionale dell’Iraq moderno, fu la culla delle leggi scritte e della letteratura, di Abramo e del suo credo monoteistico. Poi la civiltà si spostò più a ovest, verso la Grecia e Roma. Dopo la caduta dell’impero romano vennero il medioevo, il rinascimento, la rivoluzione industriale e l’illuminismo, le prime rivoluzioni politiche, le guerre mondiali e la guerra fredda. A quel punto, la democrazia e i diritti umani parvero inevitabili e trionfarono.

Anche la storia degli arabi e dei musulmani comincia dai sumeri ma, fino all’epoca delle guerre mondiali, ha sempre considerato irrilevante il resto del mondo. L’Europa cristiana era il continente buio. Gli eroi, i miti, le leggende e i riferimenti musulmani erano completamente diversi. Anche per l’islam sono esistiti Mosè, Alessandro e Gesù, ma erano personaggi diversi: la vita di Musa (Mosè) era parallela a quella di Maometto e anticipava l’avvento del profeta; Iskandar (Alessandro) o Dhul Qarnayn (in arabo “il bicorno”) era una figura religiosa a cui Allah aveva concesso grandi poteri e la possibilità di costruire un muro di civiltà per tenere lontane le forze del caos e del male. E Isa, o Gesù, era il messaggero di Allah, non suo figlio, e non morì sulla croce, ma come Maometto salì direttamente in cielo. In Medio Oriente tutti i progetti politici importati dall’Europa, e lo stesso nazionalismo (tranne forse per la Turchia, l’Egitto e l’Iran che si fondano ancora più sull’etnia e la fede che sull’identità nazionale) sono miseramente falliti.

Le persone guardano soprattutto alla loro storia, alle loro tradizioni, con i loro eroi e la loro morale. E lo Stato islamico, per quanto brutale e ripugnante appaia ai nostri occhi, e anche a quelli della maggior parte del mondo arabo musulmano, punta proprio su questo.

Gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali non vogliono riconoscere questo ritorno alla tradizione. Le soluzioni che suggeriscono di solito sono stanchi inviti a ricostruire lo stato nazione imposto dopo la prima guerra mondiale dai vincitori europei, Gran Bretagna e Francia, e a riaffermare l’islam “moderato”, che attrae i giovani in cerca di avventura, gloria, ideali e valori è ancora meno invitante della solita promessa di nuovi, grandi centri commerciali.

Ma la convinzione che sia in atto uno “scontro di civiltà” tra l’islam e l’occidente è fuorviante.

L’estremismo violento non è un segno della rinascita delle culture tradizionali, ma del loro collasso, perché i giovani ormai disancorati da tradizioni millenarie si agitano in cerca di un’identità sociale che dia significato e gloria alla loro vita. Questo è il lato oscuro della globalizzazione.

In un mondo appiattito, gli individui si radicalizzano per trovare un’identità più solida. In questa nuova realtà, le linee verticali di comunicazione tra generazioni sono sostituite da linee orizzontali tra coetanei che possono attraversare tutto il pianeta. Quello che ispira i più micidiali aggressori del mondo di oggi non sono tanto il Corano o gli insegnamenti religiosi quanto una causa esaltante e un invito all’azione che promette la gloria e la stima degli amici. I volontari stranieri che vanno a combattere per lo Stato islamico sono spesso giovani che stanno attraversando una fase transitoria: persone in cerca di lavoro e che ancora non hanno trovato una compagna o un compagno, immigrati, studenti. Persone che dopo essere andate via di casa cercano nuove famiglie di amici e compagni di viaggio per dare scopo e significato alla propria vita.

Il centro francese per la prevenzione della radicalizzazione religiosa calcola che l’80 per cento di questi giovani proviene da famiglie non praticanti. Secondo il centro per la lotta al terrorismo di West Point la loro età media è di 25 anni. La maggior parte non ha ricevuto un’educazione religiosa tradizionale ed è “rinata” alla religione attraverso il jihad. Circa uno su quattro, e spesso tra i più accaniti, è un convertito. Queste persone alla ricerca di sé che si sono avvicinate al jihadismo si tengono in contatto tra loro organizzando riunioni private o via internet. Spesso sono giovani stanchi di ubriacarsi e di fare sesso con chi capita, oppure che hanno visto i loro genitori umiliati dal datore di lavoro o dallo stato, o le loro sorelle insultate perché portano il velo. La maggior parte non arriva a unirsi ai jihadisti, ma alcuni sì. Più dell’80 per cento di quelli che lo fanno stabilisce i contatti con lo Stato islamico attraverso familiari e amici. Pochissimi vengono reclutati nelle moschee o da sconosciuti.

Quello che sappiamo degli attentatori di Parigi corrisponde a questo ritratto. Come i responsabili degli attentati di Madrid del 2004 e di Londra del 2005, alcuni degli ideatori degli attacchi di gennaio e novembre del 2015 a Parigi avevano vissuto per un certo periodo nello stesso quartiere, molti di loro avevano reclutato amici e familiari, e alcuni si erano mossi nello stesso ambiente criminale e avevano passato un po’ di tempo insieme in prigione. In Francia e in altri paesi europei molti di questi giovani si sentono defraudati dei loro diritti sia dal paese in cui vivono sia da quello di origine.

A differenza degli Stati Uniti, l’Europa non è nata per assorbire migranti. Negli Stati Uniti, gli immigrati musulmani possono raggiungere o superare l’americano medio per ricchezza e livello d’istruzione già dalla prima generazione. In Europa, è molto probabile che siano più poveri della media e che lo diventino ulteriormente dopo la seconda generazione, una ferita, lasciata aperta dalla decolonizzazione, a cui è stato consentito di infettarsi senza che fosse preso nessun provvedimento. In Francia, circa l’8 per cento della popolazione è costituito da musulmani, la percentuale più alta di qualsiasi stato europeo. Al tempo stesso, è musulmano circa il 70 per cento della popolazione carceraria, e questo contribuisce in modo significativo a creare un sottoproletariato pronto a radicalizzarsi. Un giovane di 24 anni che si è unito al Fronte al Nusra in Siria ha descritto così la sua esperienza in Germania: “Ci insegnano a lavorare sodo per comprare una bella macchina e bei vestiti, ma questa non è la felicità. Ero un essere umano di serie C perché non ero integrato in quel sistema corrotto. Ma non volevo essere un delinquente di strada. Perciò io e i miei amici abbiamo deciso di cominciare ad andare in giro a invitare la gente a convertirsi all’islam. Gli altri gruppi musulmani della città chiacchierano e basta. Pensano che un vero stato islamico gli pioverà dal cielo senza dover lottare per averlo”. La maggior parte dei combattenti volontari europei sceglie l’Is anziché Al Nusra perché “crede che il califfato sia già qui oggi e non sia necessario aspettare domani”.

Ma molti non sono affatto emarginati nel loro paese. Come mi ha scritto un medico di famiglia qualche tempo fa, “negli ultimi mesi, due gruppi di studenti di medicina dell’Università delle scienze mediche e della tecnologia di Khartum, in Sudan, sono scappati per unirsi all’Is. Le famiglie di quegli studenti non riescono a sopportare la perdita. Soffrono come se fossero morti. Gli studenti fuggiti dalla nostra università appartenevano all’alta borghesia e i genitori non gli facevano mancare nulla. Non riesco a capire che cosa possa aver spinto quei ragazzi così studiosi e intelligenti a unirsi all’Is. È un problema di mancanza d’identità? Potrebbe essere colpa degli atenei? O forse della mancanza d’influenza delle famiglie?”.

Un impiegato di banca di Mosul ci ha raccontato: “Un giorno i militanti dellIs sono entrati nella nostra banca. Il personale era terrorizzato e si è offerto di aiutarli in ogni modo. Un combattente algerino di 25 anni circa ha solo chiesto educatamente di essere accompagnato ai nostri computer. In poco tempo, ha scaricato tutte le transazioni della banca. Ha detto che si era unito all’Is per mettere a buon uso la sua laurea in ingegneria informatica”.

Il califfato attira tutti questi giovani offrendogli uno scopo nella vita e la liberazione da quelli che considerano i mali di un mondo materiale privo di significato.

Lo Stato islamico dovrebbe conformarsi alla visione pura, salafita, dei primi seguaci del profeta (cioè dei salaf, gli antenati). È un’impresa enorme che impone la guerra santa contro gli infedeli (kafir) come obbligo individuale (fard al’ayn) a tutti quelli che appartengono alla Casa dell’islam (Dar al Islam). I seguaci del califfato sono fortemente contrari all’idea di jihad come lotta spirituale interiore. Pensano che questo falso concetto di jihad sia alla base dell’eresia sufita, nata verso la fine del califfato abbaside, nel tredicesimo secolo, che ha corrotto la forma pura del califfato arabo e ha portato alla decadenza di oggi.

Al vertice dei paesi dell’Asia orientale che si è tenuto a Singapore nell’aprile del 2015, qualcuno ha insistito nel dire che il califfato non è altro che un mito per mascherare la consueta politica di potere.

Ma le ricerche che abbiamo condotto in Europa e in Africa del nord hanno dimostrato che questo è un errore di giudizio pericoloso. Il califfato è riemerso come motivo di mobilitazione per molti musulmani, e anche quelli favorevoli al dialogo tra le varie fedi ne subiscono il fascino. “Sono contrario alla violenza di Al Qaeda e dell’Is”, ha detto un imam di Barcellona che collabora a un’iniziativa per favorire il dialogo tra cristiani ed ebrei, “ma questi gruppi hanno attirato l’attenzione sulla nostra difficile situazione in Europa e nel mondo. Prima eravamo ignorati. E il califfato … noi lo sogniamo come gli ebrei hanno sognato per molto tempo il regno di Sion. Potrebbe essere una federazione di popoli musulmani, come l’Unione europea. Il califfato è qui nei nostri cuori, anche se non sappiamo che forma prenderà realmente alla fine“.

Qualunque sia la forma che assumerà, possiamo essere certi che sarà radicato nella storia e nella cultura degli stati arabi, non in quelle dell’occidente. Il suo progetto si basa sulla realtà del predominio musulmano in Asia e Medio Oriente fino alla rivoluzione industriale europea e sul rifiuto dell’ordine mondiale occidentale imposto dopo la caduta dell’impero ottomano all’inizio del novecento, sia esso un ordine liberaldemocratico o socialista.

Probabilmente, lo Stato islamico mira sopra ogni cosa a mettere fine all’ordine neocoloniale imposto da Francia e Regno Unito alle province arabe dell’ex impero ottomano dopo la prima guerra mondiale.

Nella primavera del 2014, quando abbatté con i bulldozer la frontiera tra Iraq e Siria, l’Is provocò un sentimento di liberazione e di gioia in molti abitanti della regione, e non solo. A differenza degli Stati Uniti e delle altre grandi potenze, comprese Russia e Cina, molti abitanti della regione non pensano che il caos di oggi sia stato provocato dal fallimento di stati che adesso devono essere ricostruiti a ogni costo, ma dalle divisioni fittizie che avevano dato vita a quegli stati.

Le rivoluzioni, passate e presenti, sono sempre atti morali. Il deterioramento o il rapido cambiamento delle condizioni economiche e sociali può dare il via a una cascata di eventi che provocano una crisi politica. Ma questa crisi innesca una rivoluzione contro l’ordine costituito solo quando interviene un nuovo ordine morale, e quando la presa del potere può servire ad affermare i “valori sacri” che definiscono quell’ordine.

In Egitto, l’influenza dei Fratelli musulmani – il movimento islamista che si è trasformato in partito politico – si stava diffondendo già molto prima della primavera araba. Anche se all’inizio la Fratellanza si era rifiutata di partecipare alle elezioni, le spaccature tra le forze laiche le hanno consentito di gettarsi nella mischia e di andare a riempire il vuoto morale lasciato dalla rivoluzione. Ma a differenza dei fondatori della repubblica islamica dell’Iran, che fecero epurazioni nell’esercito, riuscirono a controllare i bazaari (i commercianti urbani) e a tirare dalla propria parte la popolazione religiosa delle campagne, i leader egiziani della Fratellanza (come mi hanno rivelato loro stessi) erano convinti di potersi assicurare la fedeltà dell’esercito, la ripresa dell’economia e l’appoggio della popolazione controllando innanzi tutto i telefoni cellulari e il ministero dell’informazione.

Lo Stato islamico, invece, ha deciso d’imporre rapidamente e spietatamente una nuova-vecchia etica agli arabi sunniti dei paesi mediorientali dilaniati dalla guerra, e ha promesso la guerra totale contro la moralità “satanica” dell’Iran, degli sciiti e di tutti quelli che li aiutano (compresi gli Stati Uniti, i loro alleati e la Russia) in una lotta mortale per difendere l’anima musulmana e salvare tutta l’umanità.

Le analogie storiche sono sempre state utili fino a un certo punto, ma sono anche uno dei pochi mezzi che abbiamo per interpretare il nuovo o, almeno, per riconoscere cosa lo è veramente. E nella storia delle rivoluzioni moderne ce ne sono di straordinarie, a partire da quando la fazione giacobina dei rivoluzionari francesi guidata da Maximilien de Robespierre introdusse il concetto politico di terrore e la decapitazione con la ghigliottina, un provvedimento estremo in difesa della democrazia che fu considerato una forma di violenza divina. Nel 1848, le rivoluzioni ispirate all’idea di uguaglianza sociale e fratellanza universale scossero l’intero continente europeo. Il loro fallimento ha molti punti in comune con quella che, in retrospettiva, è stata erroneamente chiamata (soprattutto dagli speranzosi commentatori occidentali) la primavera araba.

Cominciate in Sicilia nel gennaio del 1848, grazie alle reti sociali e al passaparola, tra marzo e aprile si diffusero a catena in buona parte del continente, dalla Danimarca ai confini della Russia, più rapidamente di quanto abbia fatto la primavera araba attraverso i social network e i mezzi d’informazione. Come le forze laiche che guidavano la primavera araba, quelle che erano alla testa dei moti del 1848 non erano sufficientemente unite e avevano una scarsa conoscenza pratica di come si stabilisce quel nuovo ordine morale da cui dipende la sopravvivenza e il successo di ogni rivoluzione.

Le élite reazionarie, con l’assenso della chiesa cattolica, andarono a riempire quel vuoto creando una nuova moralità nazionalista con tutti i suoi annessi semireligiosi: le bandiere, le cerimonie, gli inni, le parate e una fratellanza immaginaria basata sulle radici comuni, sulla terra e sull’etnia. Questa nuova moralità politica mirava ad assicurare alle élite tradizionali la fedeltà delle masse contadine e operaie che altrimenti avrebbero potuto aspirare a infrangere le gerarchie sociali e i confini politici in nome di una fratellanza universale. La titanica lotta globale del ventesimo secolo tra fascismo e comunismo ne è stata in parte la conseguenza. È troppo presto per capire quale sarà il retaggio finale del fallimento della primavera araba.

La rivalità tra Al Qaeda e il gruppo Stato islamico riecheggia quella tra anarchici e bolscevichi. Cominciato in Russia negli anni settanta dell’ottocento come movimento contro il potere dello stato e del capitale, ben presto l’anarchismo si diffuse in tutto il vecchio continente e nelle Americhe. Tra il 1881 e il 1901 persone strettamente collegate al movimento anarchico uccisero lo zar di Russia, il presidente francese, il primo ministro spagnolo, il re d’Italia, l’imperatrice d’Austria e il presidente degli Stati Uniti.

Le grandi potenze consideravano l’anarchismo la più grande minaccia all’ordine politico ed economico e alla stabilità internazionale. Davanti ai ripetuti attacchi contro i parigini nei caffè, nei teatri e in altri luoghi frequentati dalla borghesia, i politici e la stampa popolare chiesero al popolo francese di “svegliarsi” e di “unirsi” per combattere una piaga che era una minaccia per la civiltà stessa. Le conseguenze politiche (e in una certa misura anche economiche e sociali) di questa prima ondata di terrorismo moderno furono, per molti versi, simili a quelle degli attacchi dell’11 settembre 2001.

Teddy Roosevelt fece della sconfitta dell’anarchismo una delle principali missioni della sua amministrazione: “Se paragonata alla repressione dell’anarchia, qualsiasi altra questione diventa insignificante. L’anarchico è nemico dell’umanità, di tutto il genere umano“. Ma Roosevelt non limitò la sua lotta al terrorismo anarchico. Trasformò la guerra all’anarchia in una missione imperialista che, in caso di necessità, lo avrebbe autorizzato a intervenire in qualsiasi paese del mondo per proteggerlo dal nemico straniero e salvarlo dal caos. “Comportamenti cronici sbagliati“, diceva nel suo famoso corollario alla dottrina Monroe, “o un’impotenza tale da provocare il generale indebolimento dei legami della società, in America o altrove, potrebbero richiedere l’intervento di un paese civilizzato e, nei casi più palesi di tali comportamenti o di impotenza, spingere gli Stati Uniti, seppure con riluttanza, a esercitare la funzione di polizia internazionale”.

Anche se i politici e la gente comune erano convinti che ci fosse una “centrale anarchica”, questa non è mai esistita. Come Al Qaeda, il movimento anarchico era essenzialmente decentrato, costituito da volontari guidati da persone istruite e benestanti (fin dai tempi del movimento anarchico, inizialmente le rivoluzioni sono sempre state guidate da studenti di medicina, dottori e ingegneri, oggi soprattutto informatici, che hanno esperienza pratica e competenze tecniche, sono dediti alla causa e pronti a impegnarsi in azioni che non danno risultati immediati). Quello che alla fine distrusse il movimento anarchico come forza geopolitica fu l’arrivo dei bolscevichi, che sapevano meglio come realizzare un progetto politico condiviso usando la forza militare e la gestione del territorio. Erano anche, nel complesso, molto più spietati.

Da una serie di recenti interviste con alcuni militanti del Fronte al Nusra delle regioni siriane di Aleppo e Daraa è apparso chiaro che l’Is sta inghiottendo Al Qaeda più o meno come i bolscevichi inglobarono e praticamente annientarono il movimento anarchico. Perino alcuni combattenti di Al Nusra lo hanno ammesso, riconoscendo che Daesh (il nome usato dagli arabi per indicare l’Is) è meglio guidato, organizzato, equipaggiato e radicato nel territorio, meno disposto ai compromessi e più brutale nelle azioni. Come ha lamentato uno di loro, “Daesh ci ha tolto tutto il potere e le risorse economiche, e i suoi mezzi d’informazione sono più efficaci. Ormai ci sentiamo come pesci fuor d’acqua“.

Tra le due guerre mondiali, i suoi avversari sostenevano che il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi non era né un partito dei lavoratori né socialista. Oggi ci sentiamo continuamente ripetere che il gruppo Stato islamico non è né uno stato né islamico. In realtà è vero proprio il contrario: credere che rifiutare di chiamare lo Stato islamico con il suo nome possa delegittimarlo è un’illusione (una rosa, o un nazista, se li chiamiamo con un altro nome sono comunque quello che sono).

In realtà, c’è anche un collegamento più profondo tra il movimento nazista e lo Stato islamico. Nel 1940, recensendo Mein Kampf, George Orwell aveva colto bene l’essenza del problema: “Hitler sa che gli esseri umani non vogliono solo comodità, sicurezza, orario di lavoro ridotto, igiene e, in generale, ciò che è sensato desiderare. Vogliono, almeno ogni tanto, anche lotta e sacrifici. Mentre il socialismo, e con maggior riluttanza perfino il capitalismo, dicono al popolo ‘ti offro di vivere bene’, Hitler dice ‘ti offro la lotta, il pericolo e la morte’, e un intero paese si getta ai suoi piedi“.

L’esercito tedesco superava tutti gli eserciti alleati da qualsiasi punto di vista. Secondo la dottrina militare classica, un 30 per cento circa di perdite in un’unità di combattimento di solito conduce all’entropia, quindi l’esercito vittorioso, appena ha la conferma di aver provocato quella percentuale di vittime passa all’obiettivo successivo. Ma le unità tedesche spesso subivano perdite superiori al 50 per cento eppure resistevano, lottavano coraggiosamente e a volte inevitabilmente fino alla morte in difesa di una causa in cui credevano. Gli studi sociopsicologici condotti nel dopoguerra hanno rivelato che i soldati tedeschi credevano in quello che stavano facendo e lottavano per la causa e per i loro compagni, mentre, nonostante la propaganda hollywoodiana e quella sovietica, non è affatto dimostrato che gli alleati combattessero per la democrazia o per il comunismo. Gli eserciti tedeschi furono sconfitti a causa dell’enorme superiorità della potenza di fuoco degli Stati Uniti e di più di venti milioni di russi mandati al macello.

Forse succederà qualcosa di simile anche con lo Stato islamico. Ma, per ora, i mezzi spiegati contro questo movimento dinamico e rivoluzionario sembrano abbastanza deboli, e quella che il governo statunitense cerca di spacciare per una “grande coalizione contro l’Is” di 65 paesi (alcuni dei quali sempre pronti ad accoltellarsi a vicenda) sembra inconsistente, se non del tutto fatua.

Ovviamente, “le guerre si vincono nel mondo materiale”, come ci ricorda giustamente J.M. Berger, ma a parità di condizioni la dedizione spirituale a una causa e ai propri compagni comporta un grande vantaggio.

Come osservò per la prima volta lo storico arabo del trecento Ibn Khaldun, confrontando tra loro le dinastie musulmane dell’Africa del nord che avevano una potenza militare simile, sul lungo periodo il successo “è determinato dalla religione e dallo spirito di gruppo (asabiyah), grazie al quale i desideri individuali convergono nella collaborazione e nel sostegno reciproco”.

Nel 2014, il presidente statunitense Barack Obama ha confermato il giudizio del suo direttore dei servizi segreti nazionali: “Abbiamo sottovalutato i vietcong, abbiamo sottovalutato lo Stato islamico e abbiamo sopravvalutato la capacità di combattimento dell’esercito iracheno. Tutto sta nel prevedere la volontà di combattere, che è un fattore imponderabile“.

Le nostre ricerche hanno dimostrato proprio il contrario: prevedere chi è disposto a lottare e chi no, e perché, non è affatto impossibile e può essere oggetto di studi scientifici. Dalle nostre interviste e dagli esperimenti psicologici condotti al fronte con i peshmerga curdi iracheni, i combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan, i militanti dell’Is e quelli di Al Nusra catturati in Siria possiamo avere una buona indicazione di chi è disposto a combattere. Per poter prevedere la disponibilità a fare grandi sacrifici (come andare in prigione, perdere la vita o veder soffrire la propria famiglia) bisogna tener conto di due fattori.

Il primo è la percezione di una maggiore dedizione alla causa del proprio gruppo rispetto a quello nemico. Questa percezione, che può essere misurata attraverso una serie di esperimenti comportamentali e registrata con le tecniche della neuroingegneria, emerge da quattro aspetti.

1) Il disprezzo per gli incentivi o i disincentivi materiali: qualsiasi tentativo di distogliere le persone dalla loro causa con un premio (carota) o con una sanzione (bastone) non funziona, e tende perfino a produrre l’effetto contrario.

2) L’incapacità di vedere vie di uscita: le persone non riescono neanche a concepire la possibilità di rinnegare i propri valori sacri o di allentare la dedizione alla causa.

3) L’immunità alla pressione sociale: non ha importanza quante persone siano contrarie ai valori sacri o quanto siano vicine a loro per altri aspetti.

4) La poca importanza attribuita all’immediato: nella vita quotidiana, eventi e oggetti lontani nello spazio e nel tempo perdono significato rispetto a quel che succede qui e ora; ma tutto quello che è associato ai valori sacri, indipendentemente dalla sua distanza nello spazio o nel tempo, è più importante e motivante di qualsiasi altro problema pratico.

Il secondo fattore che consente di prevedere la disponibilità a combattere a oltranza è la forza del legame con i propri compagni. Immaginate, tanto per fare un esempio, due cerchi uno dei quali rappresenta “me” e uno più grande che rappresenta “il gruppo”. In una serie di esperimenti, abbiamo chiesto ai partecipanti di scegliere tra cinque possibili combinazioni: nella prima il cerchio del “me” e quello del “gruppo” non si toccano; nella seconda si toccano; nella terza sono leggermente sovrapposti; nella quarta sono sovrapposti a metà; e nella quinta il cerchio del “me” è completamente contenuto in quello del “gruppo””. Le persone che scelgono l’ultima combinazione pensano e si comportano in modo completamente diverso da quelle che scelgono una qualsiasi delle altre. Dimostrano quella che i sociopsicologi chiamano “fusione d’identità”, sovrappongono alla loro identità personale (chi sono io) un’identità collettiva unica (chi siamo noi). È provato che questa completa fusione genera una sensazione d’invincibilità del gruppo e la disponibilità di tutti i suoi componenti a sacrificarsi gli uni per gli altri. Solo nei curdi abbiamo riscontrato una dedizione alla santa causa – la “curdità”, come la chiamano loro – e una fusione con i compagni paragonabile a quella mostrata dai militanti dell’Is.

La disponibilità a combattere e a sacrificarsi è anche strettamente associata alla percezione di avere una straordinaria potenza fisica e, cosa ancora più importante, una grande forza spirituale. La mia équipe di ricerca ha riscontrato che i militanti siriani di Al Nusra considerano l’Iran (al quale associano anche Hezbollah) il loro più formidabile nemico, in termini di forza fisica e spirituale, ma pensano che lo Stato islamico stia per raggiungere lo stesso livello. Questi combattenti di Al Qaeda attribuiscono agli Stati Uniti una forza mediocre e considerano l’esercito siriano e quello iracheno relativamente deboli fisicamente e inesistenti dal punto di vista spirituale, quindi pensano che alla lunga non saranno nemici di cui preoccuparsi.

Certo, non tutti quelli che combattono con lo Stato islamico sono fanatici religiosi. Quando abbiamo chiesto ad alcuni di quelli che erano stati catturati in Iraq cos’è l’islam, la loro risposta è stata: “La mia vita”, anche se conoscevano ben poco il Corano e gli hadith, e non sapevano nulla della storia musulmana. Il loro senso della religione si fondeva con la visione di un califfato che uccide o soggioga tutti i miscredenti, ma la loro conversione non era totale. Davanti alla quasi certezza di essere giustiziati dai curdi, molti erano pronti a ritrattare. In una conversazione captata da un walkie-talkie curdo, un militante chiedeva aiuto: “Mio fratello è stato ucciso. Sono circondato. Aiutatemi a portare via il suo corpo”. La risposta è stata: “Perfetto, lo raggiungerai presto in paradiso”. E l’uomo ha replicato: “Venite a prendermi. Non voglio il paradiso”.

La collaborazione è volontaria, ma l’Is non lascia molta scelta. Di solito dice a uno sceicco locale: “Dacci venti uomini o ti saccheggiamo il villaggio”. Oppure a un padre con tre figli: “Daccene uno o prenderemo tua figlia e la daremo ai nostri uomini”. Ci hanno raccontato di una ragazza di 15 anni che è stata fatta “sposare” e “divorziare” 15 volte in una sola notte (secondo alcune interpretazioni della sharia, per divorziare basta dire “io ti ripudio” tre volte, il che rende molto facile far passare lo stupro per matrimonio). Davanti a tanta brutalità, i sostenitori meno convinti dell’Is potrebbero unirsi a un esercito arabo sunnita, possibilmente alleato con i curdi.

I combattenti stranieri, invece, sono spesso più determinati. Per usare le parole del capo della stazione di polizia di Kirkuk, “gli stranieri sono i più pericolosi e i più impavidi di tutti. Combattono per vincere o per morire. Credono in quello che stanno facendo e non sono disposti ad arrendersi”.

Un militante di Al Nusra di 25 anni, che in origine si era unito all’Is ma poi si è stancato di “far saltare in aria civili innocenti”, ci ha confermato l’opinione del capo della polizia curdo sui volontari stranieri pronti a sacrificarsi e a morire più degli altri: “Quando ero adolescente, volevo solo giocare a calcio e ai videogame. Mi piaceva leggere romanzi. Ripensandoci ora, mi sembra che la mia mente fosse troppo concentrata sulle cose terrene: studiare, trovare un buon lavoro, stare con gli amici, divertirmi e mettere su famiglia. All’epoca il concetto stesso di jihad mi spaventava, implicava sofferenze e sacrifici che non avrei potuto sopportare. Poi mi hanno parlato del martirio (shuhada) e immediatamente ho cominciato a immaginare due eserciti che si combattevano in uno spazio aperto, guerrieri che brandivano le loro spade in sella a splendidi cavalli, e a pensare che avrei voluto combattere per Allah. Non ho mai letto molta propaganda jihadista online, ma ero così impaziente di andare in Siria che sono partito alla cieca con due fratelli inglesi per liberare la società da tutta la sua sporcizia e riportare la terra a uno stato di purezza in cui la legge di Dio regna su tutto. Invidiavo i fratelli che erano stati uccisi combattendo per Allah”.

La strategia usata dallo Stato islamico per fare proseliti e spiazzare i nemici non è un mistero, anche se pochi di quelli che prendono le decisioni politiche sembrano esserne consapevoli. Il suo manifesto, una lettura obbligatoria per i suoi emiri (cioè i leader religiosi, politici e militari), s’intitola La gestione del caos. È stato scritto più di dieci anni fa, sotto lo pseudonimo di Abu Bakr Naji, per l’ala di Al Qaeda che poi sarebbe diventata l’Is. Pensate ai massacri di Parigi, Beirut, Bamako e Bruxelles, e considerate alcuni degli assiomi del testo.

1) Colpite bersagli facili: “Diversificate ed estendete gli attacchi contro il nemico crociato-sionista in ogni parte del mondo islamico, e possibilmente anche al suo esterno, per disperdere e prosciugare al massimo le forze dell’alleanza nemica”.

2) Colpite quando le potenziali vittime hanno la guardia abbassata per spaventare al massimo la popolazione e prosciugare le risorse economiche: “Se viene colpita una località turistica frequentata dai crociati, la sicurezza verrà raddoppiata in tutte le località turistiche di tutti gli stati del mondo, e questo comporterà un forte aumento di spesa”.

3) Sfruttate lo spirito ribelle dei giovani, le loro energie, il loro idealismo, la loro disponibilità al sacrificio, mentre gli sciocchi predicano la moderazione e li invitano a evitare i rischi: “Incoraggiate le persone, in particolare i giovani, a riversarsi in massa nelle regioni che controlliamo. I giovani sono più vicini alla natura innata degli esseri umani, a causa dello spirito ribelle che è in loro e che i gruppi islamici imbelli cercano di reprimere”.

4) Trascinate più che potete l’occidente nel pantano: “Dimostrate la debolezza del potere centralizzato americano costringendolo ad abbandonare la guerra psicologica attraverso i mezzi di comunicazione e la guerra per procura e a scendere in campo direttamente”.

La stessa cosa vale per i suoi alleati. “La fine della zona grigia”, un editoriale di 12 pagine pubblicato all’inizio del 2015 su Dabiq, la rivista online dell’Is, descrive la zona intermedia tra il bene e il male, in altre parole tra il califfato e gli infedeli, occupata dalla maggior parte dei musulmani e che “le benedette operazioni dell’11 settembre” hanno messo in evidenza. L’editoriale cita Osama bin Laden e sostiene che l’Is è il suo vero erede: “Oggi il mondo è diviso. George W. Bush aveva ragione quando diceva: ‘O siete con noi o siete con i terroristi’.  Adesso, “è arrivato il momento di compiere un’altra azione che divida il mondo e distrugga la zona grigia”.

Gli attacchi di novembre a Parigi sono stati forse l’esempio più efficace della tattica di alimentare il caos in Europa, come quelli in Turchia e a Beirut miravano a ottenere lo stesso risultato in Medio Oriente.

Accogliere i rifugiati siriani rappresenterebbe chiaramente una risposta vincente a questa strategia, mentre respingerli sarebbe altrettanto chiaramente una risposta perdente. Anche se esaltiamo la diversità e la tolleranza, la tendenza generale in Europa e in buona parte degli Stati Uniti è quella di cercare di cancellarle facendo il gioco dell’Is. In Europa, l’ascesa dell’estremismo islamico è coincisa con il ritorno dei movimenti etnonazionalisti xenofobi.La combinazione di questi due fenomeni è dovuta in parte al basso tasso di natalità dell’area (1,6 figli per coppia), che crea la necessità di accogliere i migranti per mandare avanti la produzione. Non c’è mai stata tanta intolleranza come oggi nei confronti degli immigrati, ma non c’è mai stato neanche tanto bisogno di loro.

Le popolazioni delle zone sotto il controllo dello Stato islamico e di quelle vicine, in generale non sono né dalla parte dell’Is né da quella delle forze occidentali (e oggi anche russe) che gli si sono schierate contro. Non sono né fanatici né samurai, e non vogliono morire da martiri. L’Is lo sa e istiga i nemici ad attaccare i centri abitati controllati dal gruppo, anche se la sua tendenza a sparpagliare le proprie forze militari in regioni abitate soprattutto da nomadi e senza confini significa che ci sono ben poche infrastrutture da distruggere. Di conseguenza, a farne le spese sono soprattutto le popolazioni locali: se ne avessero la possibilità fuggirebbero volentieri sia dall’Is sia dalle bombe dei suoi nemici, ma molti non possono muoversi e sono costretti a dipendere dalla protezione dell’Is, perché se si dichiarassero neutrali andrebbero sicuramente incontro alla morte.

E la storia dimostra che i bombardamenti aerei di solito spingono la popolazione che li subisce, qualunque sia il regime sotto il quale vive, a schierarsi contro chi li compie.

In generale, in Siria e in buona parte dell’Iraq la zona grigia non esiste già quasi più, soprattutto tra i giovani costretti a unirsi ai guerriglieri o a entrare nel limbo dei rifugiati.

In occidente, si continua a parlare dell’imminente sconfitta dell’Is. Lo Stato islamico crollerà da solo, si dice, in parte perché sono “dei poveri disperati che cercano di combattere una guerra su tre fronti”, e in parte a causa della sua “perversa ideologia di governo”, come hanno sostenuto di recente su Politico l’economista Eli Berman, della University of California di San Diego, e il politologo Jacob Shapiro di Princeton, che invocano a sostegno della loro tesi il crollo dell’Unione Sovietica e il destino dell’attuale stato dello Zimbabwe.

Ma né i precedenti storici né gli esempi di oggi confermano questa teoria. La povertà, le guerre su più fronti e le ideologie estreme possono anche portare al trionfo della rivoluzione o al permanere della sua influenza, come nel caso della Francia repubblicana e forse anche della repubblica islamica dell’Iran. La tesi di chi sostiene che “l’Is è per il jihadismo quello che l’Unione Sovietica è stata per il comunismo”potrebbe anche essere giusta. Ma prima che le contraddizioni intrinseche all’Is lo facciano finire nel cestino della storia, ci sarà ancora tanta sofferenza.

Prima di estinguersi spontaneamente, la fiamma rivoluzionaria potrebbe fare terra bruciata intorno a sé e modificare profondamente una zona più ampia della regione in cui agisce. Per compiere gli attacchi dell’11 settembre 2001 ci sono voluti tra i 400 e i 500mila dollari, mentre la spesa per la risposta degli Stati Uniti e dei loro alleati è stata dieci milioni di volte più grande. A livello di costi -benefici, questo movimento violento ha ottenuto e sta continuando a ottenere un successo eccezionale, che va ben oltre quello che immaginava lo stesso Bin Laden.

Queste sono le conseguenze della guerra asimmetrica: chi di noi potrebbe dire che oggi le cose vanno meglio di prima e che siamo meno in pericolo?

Basterebbe solo questo a ispirare un cambiamento radicale delle nostre controstrategie.

Commettere sempre gli stessi errori aspettandosi risultati diversi di solito è considerato follia, eppure continuiamo a concentrarci quasi esclusivamente sulla sicurezza e sulle risposte militari. Alcune decisioni si sono dimostrate inefficaci sin dall’inizio, come affidarci all’esercito iracheno, o afgano, o all’Esercito siriano libero.

Non prestiamo invece sufficiente attenzione agli aspetti sociologici e psicologici.

Non intendo suggerire che possiamo risolvere tutto offrendo ai potenziali jihadisti un lavoro migliore. Un rapporto della Banca mondiale dimostra che non esiste alcuna corrispondenza tra la creazione di posti di lavoro e la riduzione della violenza. Se qualcuno è pronto a sacrificare la vita, è difficile che si lasci fermare dall’oferta di maggiori vantaggi materiali. Dovremmo piuttosto soddisfare i suoi bisogni psicologici e le sue aspirazioni. Per fare un altro esempio degli errori che commettiamo, il dipartimento di stato statunitense continua a inviare inutili tweet, mentre l’Is passa centinaia di ore a cercare di reclutare singoli individui. Attraverso i suoi social network, il sofisticato Stato islamico ha imparato che le frustrazioni personali possono confluire nel tema unico della persecuzione di tutti i musulmani, e tradurre la rabbia e le aspirazioni non realizzate in indignazione morale.

Secondo alcune stime, l’Is gestisce fino a 70mila account Twitter e Facebook, con centinaia di migliaia di follower, e manda circa 90mila sms al giorno. Presta anche molta attenzione alle canzoni popolari, ai video, ai film d’azione e ai programmi televisivi più seguiti dai giovani, e li usa come modelli per i suoi messaggi. Il governo degli Stati Uniti, invece, ha poche persone che si occupano dei giovani prima che diventino un problema. L’Fbi sta premendo per tirarsi fuori da questa caotica faccenda della prevenzione e limitarsi alle indagini. “Nessuno vuole occuparsene”, ci hanno detto alcuni dipendenti del centro nazionale antiterrorismo.

E i diplomatici non si rendono conto che gli inviti alla moderazione non funzionano con giovani irrequieti e idealisti che cercano avventure, gloria e un senso da dare alla propria vita. Come ci ha detto in Giordania un imam ex mediatore dell’Is, “i giovani che venivano da noi non potevano essere indottrinati come bambini ritardati. Erano quasi tutti buoni e intelligenti, ma illusi. Per poter competere dobbiamo trasmettergli un messaggio migliore, più positivo. Altrimenti li perderemo e finiranno tra le braccia dello Stato islamico”.

Alcuni metodi usati a livello locale hanno avuto maggior successo nel dissuaderli. L’United network of young peacebuilders è riuscito a convincere molti giovani taliban pachistani che i nemici possono anche essere amici, e poi ha incoraggiato quelli che aveva persuaso a persuaderne altri. Ma questo non è sufficiente a contrastare il fascino che l’Is esercita sui giovani di quasi 90 paesi e di tutte le classi sociali. I successi a livello locale vanno condivisi con i governi, e bisogna permettere alle iniziative di crescere prima che si sgonfino. Finora non è stato fatto nulla del genere: i giovani pacifisti che hanno buone idee hanno pochi canali istituzionali attraverso cui svilupparle. Anche se le buone idee dei giovani trovassero il modo di emergere e ottenere un appoggio istituzionale che ne consentisse lo sviluppo e la realizzazione, ci sarà sempre bisogno dell’aiuto degli intellettuali per convincere il pubblico della loro efficacia.

Ma dove sono gli intellettuali pronti a farlo? Tutti i leader musulmani di tutto il mondo che ho intervistato hanno parlato solo di “ideologie, insoddisfazione e dinamiche di gruppo”, usando i termini creati dagli esperti di terrorismo e dagli istituti di ricerca occidentali. Quando chiedo ai miei intervistati: “Voi che cosa pensate?“, mi sento rispondere candidamente, come hanno fatto di recente alcuni politici musulmani a Singapore: “Non abbiamo molte idee e su quelle che abbiamo non riusciamo a metterci d’accordo“.

E dove sono gli intellettuali della nostra generazione o della prossima che potrebbero influire sui princìpi morali, le motivazioni e le azioni della società per trovare una soluzione giusta e ragionevole che ci porti fuori da questo pantano?

Tra gli accademici, ben pochi sono disposti a entrare in conflitto con il potere, quindi si rendono irrilevanti e non si assumono nessuna responsabilità morale cedendo completamente il campo a quelli che criticano. Di conseguenza, i politici non gli prestano nessuna attenzione, e al pubblico, spesso giustamente, non interessa quello che pensano. Per esempio, subito dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, molti miei colleghi antropologi si sono preoccupati principalmente di dibattere sull’impero: quello degli Stati Uniti è un impero classico o un “impero leggero”? Forse questo esercizio accademico era giustificabile, e a lungo termine le loro riflessioni potrebbero rivelarsi utili, ma non sono state di nessun aiuto quando il paese stava andando a grandi passi verso una guerra a tempo indeterminato, con tutta la sofferenza che avrebbe inevitabilmente portato con sé.

Un tempo l’impegno degli intellettuali faceva parte della nostra vita pubblica, non per promuovere un’azione “certa, chiara e forte”, come scriveva Martin Heidegger a sostegno di Hitler, ma per proporre giuste e ragionevoli alternative. Oggi questa sfera di dibattito pubblico è stata lasciata soprattutto nelle mani di conduttori di talk show, blogger fanatici e predicatori televisivi. Queste persone raramente fanno quello che dovrebbero fare gli intellettuali.

Un intellettuale”, scriveva il filosofo e sociologo francese Raymond Aron sessant’anni fa, “deve cercare di non dimenticare mai gli argomenti dell’avversario, l’incertezza del futuro, gli errori della propria parte e la fratellanza tra le persone comuni di tutto il mondo”.

Le civiltà sorgono e cadono in base alla vitalità dei loro ideali culturali, non solo alla quantità di beni materiali che possiedono. La storia dimostra che quasi tutte le società hanno valori sacri per i quali i popoli sono disposti a combattere e perfino a morire per non scendere a compromessi.

Dalla nostra ricerca è emerso che è così per molti di quelli che si uniscono all’Is, e per molti curdi che gli si oppongono sui vari fronti. Ma finora non abbiamo riscontrato la stessa disponibilità da parte della maggior parte dei giovani che abbiamo scelto come campione nelle democrazie occidentali.

Dopo la sconfitta del fascismo e del comunismo si sono rifugiati nella ricerca del benessere e della sicurezza?

Ed è sufficiente questo per garantire la sopravvivenza, per non dire il trionfo, dei valori che diamo per scontati e sui quali siamo convinti che si basi il nostro mondo?

Più che il jihadismo violento, forse è questo il problema più importante delle società aperte di oggi.

***

Scott Atran è un antropologo statunitense che insegna al Centre national de la recherche scientiique Dell’École normale superieure di Parigi e all’università di Oxford.

(articolo originale: ISIS is a revolution, AEON, testo e traduzione italiana da Rivoluzione e Stato islamico,  Internazionale n.1147)

Tiziano Matteucci
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"Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ’l Po discende / per aver pace co’ seguaci sui." (Dante Alighieri - Inferno, V). Per il resto non c'e' molto da dire. Pensionato italiano che ora risiede in una cittadina del nord ovest della Thailandia per un assieme di causalità e convenienze ... c'è solo una cosa certa: "faccio cerchi sull'acqua ... per far divertire i sassi" (Premdas)
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