«Secondo uno studio, pubblicato su Science, un totale di 8,8 milioni di tonnellate di materie plastiche vanno annualmente ad inquinare il mare e la sola area Asia – Pacifico ne produce 5,3 milioni di tonnellate, il 60%.
Cina, Filippine, Thailandia, Vietnam e Indonesia (a seguire Malesia, Nigeria, Egitto, Sri Lanka e Bangladesh), questa la top ten dei Paesi che contaminano l’ambiente con le materie plastiche.
L’organizzazione noprofit Ocean Conservancy sostiene che in questi Paesi non esistono sistemi di gestione dei rifiuti o infrastrutture per il riciclo sufficientemente sviluppate, che permettano di evitare ad una immensa mole di spazzatura l’inquinamento degli oceani. La produzione è troppo superiore alla capacità di trattamento delle scorie, così che a farne le spese è l’ecosistema di tutto il pianeta.» (Altrimondinews.it)
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Un triste primato per la Thailandia che, dati del 2010, era una delle maggiori esportatrici (assieme a Cina e Malesia) sul mercato italiano, ne importavamo 25 milioni di pezzi – il 25% delle importazioni totali dell’area Euro -.
Ma tutto questo, in buon parte, rappresenta un dato di fatto, una fotografia che, come tutte le fotografie, mostra ma non può esplicitare tutti i “perché” del complesso rapporto tra l’uomo ed i suoi “rifiuti”.
Tutti i rifiuti che produciamo si dividono, principalmente, in due categorie: pericolosi per l’ambiente ed i suoi abitanti e non pericolosi, ma spesso questa suddivisione viene diluita da legislazioni nazionali e/o locali ad hoc (a cui, ovviamente, si devono aggiungere i comportamenti illeciti che, se scoperti, vengono puniti dalla giustizia).
Quel prodotto che nella mia nazione diviene antieconomico fabbricare (se non del tutto vietato), a seguito dell’introduzione di nuove normative di tutela ambientale che richiederebbero quantomeno investimenti industriali e che io – azienda – non intendo fare, lo vado a fabbricare in un’altra parte del mondo. Sposto la mia (pericolosa) produzione in una nazione (spesso definita: emergente) dove la legge mi consente di continuare ad utilizzare il medesimo ciclo produttivo giudicato pericoloso dalla mia nazione.
Questo “normale” comportamento (delocalizzazione) praticato da alcune aziende, soprattutto multinazionali, viene anche guardato, da molti spettatori, con favore quando, conglobato nel PIL della nazione emergente, conferma la sua crescita economica (l’India e il disastro di Bhopal sono lì a testimoniare).
Ma, utile o perdita che sia, l’unica certezza è che ne produciamo una miriade, dai comuni rifiuti urbani (per le nostre necessità fisiologiche, alimentari e quant’altro), ai rifiuti industriali (per la nostra necessità di trasformare le materie prime) … siamo arrivati a produrre rifiuti spaziali.
Quali siano i meccanismi che portano all’abbandono (o alla produzione) di sostanze e oggetti non biodegradabili (e financo pericolosi), in luoghi che invece dovremmo salvaguardare resta una domanda complessa e con tante risposte.
Ma ne riparleremo, circoscrivendo la narrazione ai sacchetti di plastica, all’Italia, alla Thailandia.
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