«Halberstadt [Sassonia-Anhalt] fu, da gennaio, puntualmente sorvolata dagli statunitensi che tentarono senza successo di centrare la fabbrica Junkers. Il 19 febbraio venne colpita la ferrovia, ma le “giornate nere” di Halberstadt furono il 7 e l’8 aprile 1945: il 7 i cacciabombardieri statunitensi fecero saltare in aria un treno carico di munizioni che distrusse l’intero complesso ferroviario e l’8, non riuscendo a trovare Zerbst e Staßfurt, oltre duecento B-17 polverizzarono i tre quarti di Halberstadt.» (Wikipedia)
«Winfried Georg Sebald cita, da Unheimlichkeit der Zeit di Alexander Kluge, un’intervista fatta dal giornalista tedesco Kunzert al brigadier dell’Eight Army Air Force americana Frederick Lewis Anderson.
Incalzato da Kunzert a spiegare se vi sarebbe stato un modo per prevenire/evitare la distruzione di Halberstadt, la sua città natale, dal bombardamento a tappeto degli americani, Anderson rispose che le bombe, dopotutto, erano «articoli costosi».
«In pratica, non avrebbe avuto senso sganciarle sui monti o in aperta campagna dopo tutto il lavoro che aveva richiesto la loro fabbricazione in patria» (Sebald, p. 65).
Anderson, insolitamente sincero, rivelò la questione cruciale: non era stata la necessità di fare qualcosa di Halberstadt ad aver determinato il bombardamento che ne aveva causato la distruzione. Halberstadt era stata una «vittima collaterale» (per aggiornare il linguaggio del militare) del successo della fabbrica di ordigni. Come spiega Sebald, «una volta costruite le bombe, il semplice fatto di lasciare inattivo l’aereo con il suo carico prezioso negli aeroporti dell’Inghilterra orientale sarebbe andato contro ogni sano istinto economico» (ibidem, p. 18).
Questo «istinto economico» ebbe forse la prima, ma di sicuro l’ultima, parola nel dibattito sull’appropriatezza e sull’utilità della strategia del «bomber» Sir Arthur Harris; la distruzione delle città tedesche iniziò il suo pieno e inarrestabile corso molto tempo dopo la primavera del 1944, quando era già chiaro ai politici e ai militari al comando che, contrariamente all’obiettivo proclamato ufficialmente rispetto alla campagna aerea e alla sua messa in atto protratta, determinata, profusa, zelante, eccessiva, «il morale della popolazione tedesca era ovviamente indomito mentre la produzione industriale era stata danneggiata, nel migliore dei casi, solo marginalmente, e la fine della guerra non si era avvicinata di un solo giorno».
Quando ce ne si avvide, il materiale bellico era già stato costruito e riempiva i depositi fino a scoppiare; lasciarlo inoperoso avrebbe sul serio significato «andare contro qualunque sano istinto economico» o, per dirla più semplicemente, sarebbe stato «economicamente insensato» (secondo le stime di A.J.P. Taylor, citato da Max Hastings nel suo studio del 1979 Bomber Command a p. 349, la gestione della campagna di bombardamenti aveva impegnato e «inghiottito», dopotutto, un terzo della produzione bellica britannica totale).
Abbiamo finora delineato e confrontato due piste lungo le quali si è spinta la ricerca nel tentativo di dare risposta all’unde malum [nel libro Bauman analizza le vie che portano alla violenza umana, ndr]. Esiste, tuttavia, una terza pista che, a causa dell’estemporaneità e dell’universalità dei fattori che evoca e dispiega nella ricerca di una spiegazione, merita di essere definita antropologica; un approccio che, a mano a mano che passa il tempo, sembra crescere d’importanza e appare sempre più promettente, mentre gli altri due approcci discussi prima sembrano essere vicini all’esaurimento del loro potenziale cognitivo. Possiamo già intuire la direzione della terza pista dallo studio di Sebald, e nondimeno essa era già stata tracciata prima dal fecondo studio di Günther Anders sul fenomeno della «sindrome Nagasaki» — uno studio trascurato e negletto per decenni — in cui si poneva il problema del potenziale pienamente e autenticamente apocalittico di un «globocidio».
La «sindrome Nagasaki», come suggerisce Anders, significa che «quel che è stato fatto una volta può essere ripetuto molte volte, con ancor più deboli riserve»; a ogni nuovo episodio, sempre più realisticamente, con più noncuranza, con minore riflessività o motivazione. «La ripetizione di una violenza è non solo possibile ma probabile — poiché le chances di vincere la battaglia per prevenirla si assottigliano mentre aumentano quelle di perderla.» (Le sorgenti del male – Zygmunt Bauman – Ed. Edizioni Centro Studi Erickson)
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Spiegatemi, dopo che vi hanno liberato da fascisti e nazisti andate a fare le pulci sul “come”?
Ma ci siete mai andati a visitare i cimiteri militari come quello di Maastricht dove sono sepolti centinaia degli aviatori morti duranti i raid? Almeno gli Olandesi ci vanno e si ricordano a chi devono la liberta’. Ah gia’, ma quelle son persone serie.
Roberto, la tua lettura mi sconcerta. Par quasi che si attribuisca a Bauman (e agli altri) la ricerca di voler infangare il vincitore, facendolo diventare un’altro colpevole.
Qui si tratta del fare il “bene” e fare il “male”, tutto equamente distribuito nel cervello di tutti.
Siano essi vincitori o vinti.
Poi la storia la scrivono i vincitori, sempre.
Guarda le immagini di ‘vincitori’ uccisi, vengono sottotitolate con:
” vittime delle belve nazifasciste”
I morti civili tedeschi non appaiono mai e se appaiono sono:”vittime civili”.
La narrazione di quegli eventi pare abbia (ma non può avere, a mio modo di vedere) una gustificazione morale a prescindere, ma dipende da chi vince.
Uccidere qualcuno è sempre ed assolutamente sbagliato.
Ma qui scivoliamo nell’inconscio e siccome non mi sono mai trovato dinnanzi ad una scelta del genere, direi che è arrivato il momento di riflettere.
E ti saluto con uno spunto di riflessione: cosa avresti scritto se tutta la tua famiglia fosse morta nel bombardamento di Halberstadt?