L’apparente tranquillità del Laos. Dietro l’immagine di paese sonnolento e amato dai turisti, il Laos è uno degli stati più repressivi del mondo. Ma trova poco spazio sui mezzi d’informazione.
Di Joshua Kurlantzick, The Diplomat, 30 gennaio 2016
Ha una reputazione di paese tranquillo ed è tra le mete predilette dai turisti zaino in spalla, ma il Laos è in realtà uno dei paesi più repressivi e politicamente meno trasparenti al mondo. Nella classifica stilata ogni anno da Freedom House si posiziona sempre tra i paesi “non liberi”.
A differenza di Thailandia, Cambogia e persino Birmania, il Laos non ha alcun partito d’opposizione organizzato. Le manifestazioni di protesta, anche se rare, vengono represse immediatamente e i loro organizzatori spariscono nel nulla.
I mezzi d’informazione statali non informano affatto e quelli privati sono pochi, con l’eccezione di Radio Free Asia-Laos [stazione radio statunitense finanziata dal Congresso USA, n.d.r.].
Spesso strani incidenti restano irrisolti. Nell’inverno del 2014, per esempio, un turista canadese è morto accoltellato all’aeroporto di Vientiane. Il governo ha sostenuto l’ipotesi, improbabile, del suicidio e alla fine sul caso non è stata fatta chiarezza. Nel 2007 il proprietario di un grande hotel è scomparso e tutto lasciava pensare che fosse stato rapito. Secondo alcuni operatori umanitari della zona aveva fatto irritare dei funzionari locali con le sue critiche sulla loro gestione della terra e dell’ambiente. Anche questo caso è rimasto irrisolto.
Nel 2015, secondo Radio Free Asia, diversi cittadini laotiani che usavano i social network per denunciare presunti casi di land grabbing (espropriazione terriera) e di abusi di potere sono stati arrestati.
La repressione politica in Laos è poco seguita dalla comunità internazionale. Solo una notizia, quella della sparizione nel 2012 di Sombath Somphone, l’attivista più noto del paese, è stata ripresa dai mezzi d’informazione internazionali. E intanto la sonnolenta vita quotidiana che si conduce in gran parte del paese dà ai visitatori stranieri l’impressione che in Laos non succeda quasi niente. Ma in un ambiente così repressivo, la violenza a volte colpisce non solo gli attivisti ma anche funzionari ed esponenti politici, soprattutto nelle regioni dell’entroterra a maggioranza hmong.
Dopo la vittoria comunista nella guerra civile e la loro presa del potere nel 1975, bande di combattenti hmong hanno continuato a resistere in alcune zone del paese (durante la guerra in Vietnam, gli Stati uniti avevano fornito ai hmong assistenza militare, addestramento, aiuti economici e supporto aereo).
Gli scontri si sono placati nel 2000, ma negli ultimi mesi sembra siano ricominciati. Secondo la redazione locale di Radio Free Asia, infatti, dal novembre del 2015 ci sarebbero stati diversi attacchi con armi da fuoco contro l’esercito e altri obiettivi. Secondo fonti vicine agli attivisti hmong in Laos, gli attacchi sarebbero una reazione a quelli ordinati dal governo contro gruppi hmong. A novembre l’ambasciata statunitense a Vientiane avrebbe vietato ai suoi funzionari e dipendenti di andare nella provincia di Xaysomboon, nel Laos centrale, temendo che venissero coinvolti nelle violenze.
Attacchi mirati. Il 14 febbraio due cittadini cinesi sono stati uccisi e uno è rimasto ferito in un attentato nell’entroterra. Anche se gli attacchi attribuiti ai guerriglieri hmong in passato hanno avuto come obiettivo militari o altri bersagli governativi, in diverse comunità del Laos centrale e settentrionale gli investitori cinesi non sono molto amati. Lì la Cina, che è il principale investitore nel paese, è assai attiva nel settore dell’estrazione della gomma e in quello minerario e molti la accusano di land grabbing e disastri ambientali.
Gli attacchi contro cittadini cinesi, inoltre, sembrerebbero un modo per scoraggiare gli investimenti stranieri (presto nel paese arriveranno il segretario di stato statunitense John Kerry e l’inviato speciale di Pechino in Laos) e potrebbero indebolire il governo laotiano, che ha promesso di far uscire il Laos dal gruppo dei paesi meno sviluppati entro il 2020.
Articolo originale: The Diplomat. Traduzione da Internazionale n. 1141.
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