Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.(Se questo è un uomo, Primo Levi)
«Quello di Levi non è né un santino all’antifascismo né un santino all’Olocausto. Anticipa anzi che il suo libro è solo un documento per lo studio pacato dell’animo umano. A lui interessa indagare, e lo fa attraverso il ricordo minuzioso ma liberato dal linguaggio della crudeltà, dell’efferatezza. Non scrive mai camera a gas, mai la parola sterminio. Usa una sola volta il termine impiccagione. Anticipa lui stesso che il libro non aggiunge nulla a ciò che già si conosce. Il suo linguaggio è freddo, classicheggiante, dentro scorrono Dante e Manzoni, è buono per le lapidi, dice. Infatti Einaudi nel 1947 lo rifiuterà. Gli diranno no Cesare Pavese e Natalia Ginzburg e lo costringeranno a rivolgersi a un piccolo editore.
Lui indaga sul più grande esperimento biologico e sociale. Su come sia stato possibile identificare, trasferire, recintare milioni di uomini e poi sterminarli. Su quale indicibile devianza abbia colto gli assassini che hanno dovuto costruire una fabbrica moderna e sofisticata di morte con un impegno tale da distrarre risorse e tempo allo sterminio più che alla guerra in cui erano coinvolti.
Levi rinuncia al dualismo vittima-carnefice perché quella tragedia sporca persino il volto delle vittime con gli orrori degli aguzzini. Per scampare alla morte o meglio tardarla di qualche ora, di qualche settimana si accetta persino di azionare il gas. Al centro della tragedia lui esamina la relazione dell’uomo col potere, conducendo il lettore all’ennesima e più distruttiva potenza dell’uso comando. La sottomissione al potere per una ciotola di minestra, la spietatezza inguardabile e misteriosa di quella supplica, la crudeltà folle.
La porto ai giorni nostri: quale altra ragionevole spiegazione può indurre a comprendere lo scempio di carne umana che è stata provocata al Bataclan e poi al suicidio sacrificale? Non c’è ragione, riflessione, giustificazione. Non c’è risposta per questi atti.
La crudeltà dell’uomo è una manomissione della propria intelligenza.
È la forza cieca dell’obbedienza, la cultura all’obbedienza, al conformismo che conduce la mente in questi ghetti di dolore.
Levi parla di felicità suggerendo che c’è un limite anche all’infelicità.
Levi la cerca e scrive che la natura umana è nemica di ogni infinito: non esiste la felicità perfetta, totale ma una porzione insoddisfacente di essa.
La forza di uno scrittore può persino di più della realtà della cronaca, dei fatti nudi?
Assistiamo alla strage dei migranti nel Mediterraneo. Non basta una foto, un’immagine per farla finire dentro la nostra anima. Abbiamo bisogno di chi, tra noi, riuscirà a raccontarla così bene da renderla inscindibile con la storia della nostra esistenza. La lettura è percezione lenta dei fatti, è opera sulla quale bisogna dedicarsi e dalla quale uscirne trafitti. La scrittura è una fatica grande che ha bisogno di giorni, di mesi e anche di anni. E tra tanti libri ne resterà uno solo, nel caso di Levi sono due (l’altro è La tregua) ma in grado di trascinare l’emozione e tenerla viva per decenni, quando non per secoli
(Antonello Caporale intervista Marco Belpoliti, Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2016)
Fonte immagine: ЛЕХАИМ
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