L’editoriale di Riss
Il 7 gennaio 2015, intorno alle 11 e 35, è successo qualcosa di speciale. Ci avevamo pensato prima, ma non l’avevamo mai veramente considerato possibile. Nel 2006, quando Charlie ha pubblicato le vignette su Maometto, nessuno ha seriamente pensato che un giorno tutto questo sarebbe finito in violenza. Non era pensabile che nel XXI secolo, in Francia, la religione potesse ammazzare dei giornalisti. Vedevamo la Francia come un’isola laica, dov’era possibile sparare cazzate, disegnare, ridere, a prescindere dai dogmi e dai lunatici. (…)
La verità è che, già da quel momento, in molti speravano che un giorno qualcuno fosse venuto a metterci a tacere. Sì, molti speravano che venissimo uccisi. U-CCI-SI. Tra di loro, dei fanatici abbruttiti dal Corano, ma anche bigotti appartenenti ad altre religioni, che ci auguravano l’inferno nel quale credono, per aver osato ridere della religione. Per non parlare della palude degli intellettuali amareggiati, degli editorialisti indispettiti e dei giornalisti gelosi, che stanno sempre attenti a dove mettono i piedi sul sentiero della loro carriera guardandosi bene dal dire qualcosa di sincero. Questa nave di stupidi e codardi voleva la nostra morte. I religiosi perché avevamo bestemmiato, gli altri perché Charlie Hebdo è sempre stata un’anomalia nel panorama giornalistico francese.
I creatori di Charlie – Cavanna, Choron, Gebe, Cabu, Wolinski, Willem – sono stati degli anticonformisti ma con un talento benedetto dagli dei. Loro, che non credono in Dio. Puoi creare quello che hanno creato, scrivere quello che hanno scritto, disegnare quello che hanno disegnato solo quando te ne fotti di tutto. Di Dio, in primis, e poi di qualunque altra cosa. Te ne fotti di piacere alla maggioranza, di sedurre le masse annoiate o corteggiare i noiosi laureati. Al diavolo tutti. O almeno al diavolo i più. È così che siamo stati costretti a concepire Charlie per molti anni. Non pensavamo che al piacere di ritrovarci insieme ogni mercoledì mattina per chiacchierare e ridere di tutto, l’unico modo per dimenticare coloro che volevano la nostra morte. (…)
Il giornalista non è il proprietario della libertà di espressione, è solo il suo servitore. Con Charlie Hebdo, la libertà d’espressione non doveva essere utilizzata per regolare i conti con chi voleva la nostra morte. L’unica risposta da donare loro era la creatività. Più il giornale era creativo e divertente, tanto più ci saremmo posti dalla parte della vita. (…)
Nonostante le misure di sicurezza messe in atto dalla polizia dopo l’incendio del 2011, il nostro gusto per la vita ci ha fatto dimenticare l’angoscia della morte. Un mese prima del 7 gennaio 2015 ho chiesto se la scorta a Charb avesse ancora un senso. La storia delle vignette sembrava storia passata, era dietro le spalle. Ma la religione non conosce il tempo. Non conta in anni o secoli perché conosce solo l’eternità. Invece alla redazione di Charlie credevamo che il tempo fosse passato e abbiamo dimenticato il resto. Ma un credente, soprattutto se fanatico, non dimentica l’affronto alla sua fede, perché ha l’eternità alle sue spalle e di fronte. È questo che abbiamo dimenticato a Charlie. È questa eternità che si è abbattuta su di noi quel mercoledì 7 gennaio.
Quella mattina, dopo il rumore assordante di sessanta colpi sparati in tre minuti in redazione, un enorme silenzio riempì la stanza. Niente, solo l’odore acre della polvere da sparo. Speravo di sentire lamentele, gemiti. Invece niente, nemmeno un suono. Il silenzio mi ha fatto capire che erano morti. Sdraiato in terra, gli occhi che fissavano il soffitto, ho capito che alla redazione di Charlie erano tutti morti. Questa volta, Charlie era veramente morto. Con i piedi ho spostato la sedia dove, cinque minuti prima, era seduto Charb, per alzare le gambe verso l’alto, come avevo imparato nei corsi di primo soccorso. Nicolino è stato l’unico ad emettere qualche lamento in questo silenzio senza fine. E quando finalmente un vigile del fuoco mi ha aiutato, e dopo aver dovuto scavalcare Charb sdraiato al mio fianco, mi sono rifiutato di girare la testa verso la stanza per evitare di vedere i morti di Charlie. Per non vedere la morte di Charlie.
Dopo il 7 gennaio, molti ci hanno guardato come fossimo degli zombie: mezzi morti, mezzi vivi. Charlie decimato che ancora si muove un pochino. In questo periodo terribile che ha seguito l’attacco, menti delicate hanno avuto l’eleganza di pretendere che, in ogni caso, data la situazione finanziaria del giornale nel 2014, la morte di Charlie era programmata. Secondo questa immondizia, senza l’attentato del 7 gennaio Charlie avrebbe avuto solo qualche mese di vita. In breve, il 7 gennaio è stata la nostra fortuna, perché in una botta sola tutta la Francia ha cominciato a leggere Charlie. Immaginate l’effetto che la lettura di tali parole possono fare a coloro che cercano di rialzarsi. Ancora una volta, l’esistenza di Charlie era un’anomalia. Anche in questi tempi da incubo.
Spesso ci domandano: “Ma come continuare a fare il giornale dopo tutto questo?” Come? È tutto quello che abbiamo vissuto per ventitré anni che ci fa rabbia. Mai abbiamo avuto così tanta voglia di picchiare tutti quelli che hanno sognato la nostra morte. Non possono essere due piccoli idioti mascherati a mandare in aria il lavoro delle nostre vite e tutti i momenti fomidabili vissuti insieme a coloro che sono morti. Non sono loro che vedranno crepare Charlie. È Charlie che li vedrà crepare.
Il 2015 è stato il peggiore anno nella storia di Charlie Hebdo, perché ha dovuto subire le peggiori torture per un giornale d’opinione: mettere alla prova le nostre convinzioni. Saranno abbastanza forti da darci l’energia di rialzarci? Avete la risposta nelle vostre mani. Le convinzioni degli atei e dei laici possono muovere più montagne che la fede dei credenti.
Fonte: Charlie Hebdo
L’editoriale di Marco Travaglio del 7 gennaio 2016
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/07/jetais-charlie/2353771/