Il mio primo impatto con la canna da zucchero avvenne mentre percorrevo la Strada 24, in un punto in cui la carreggiata si limitava a due sole corsie, mi capitò di percorrere 40 km dietro una lunga fila di autotreni che, stracarichi e incolonnati uno dietro l’altro in modo serrato, procedevano molto, molto lentamente.
In thailandese: อ้อย (hoy), saccharum officinarum L., comunemente nota come canna da zucchero, una pianta tropicale, originaria delle regioni indomalesi, appartenente alla famiglia delle graminacee, quindi parente stretta del bambù e dotata di una caratteristica molto importante: nella canna da zucchero vivono microbi azotofissatori che ne consentono la coltivazione sullo stesso pezzo di terra per diversi anni senza far ricorso a fertilizzanti.
La canna da zucchero può essere usata come alimento immediato, estraendone il succo attraverso spremitura, oppure nella produzione del dolcificante più diffuso: lo zucchero.
Ma, se lasciamo da parte per un attimo il verde colpo d’occhio dei campi, il romanticismo del guidare lentamente, l’assetto a volte preoccupante degli autotreni e l’ottimo succo – che si può acquistare per strada – e guardiamo la storia umana legata alla canna da zucchero …
«Se il mais, la pianta che Colombo aveva portato a est, si rivelò una benedizione, la canna da zucchero, invece, la coltura che portò a ovest, fu una vera e propria maledizione. Colombo, che da giovane aveva lavorato come compratore di zucchero per i mercanti genovesi, conosceva bene la coltivazione di quella pianta. Capì che le nuove terre da lui scoperte erano molto adatte alla produzione di questo alimento redditizio; così, durante il suo secondo viaggio nelle Americhe, nel 1493, portò la canna da zucchero a Española. Se non avesse trovato né oro né spezie, almeno avrebbe prodotto zucchero. Dato che la coltivazione dello zucchero era molto laboriosa, a Colombo occorreva manodopera. E nel suo primo viaggio aveva osservato che «essi non hanno armi e sono tutti nudi […] e pertanto sono adatti perché loro si comandi e si facciano lavorare e seminare e fare tutto l’altro di cui ci sia in futuro di bisogno»; in altre parole, poteva costringere gli indigeni a lavorare come schiavi. Lo zucchero e la schiavitù sono andati di pari passo per secoli.
La canna da zucchero fu notata in India dagli antichi Greci e introdotta in Europa dagli Arabi, che cominciarono a coltivarla su larga scala nel Mediterraneo nel XII secolo, usando gli schiavi dell’Africa orientale. Gli europei si avvicinarono allo zucchero durante le crociate e conquistarono molte delle piantagioni arabe, che munirono di schiavi siriani e arabi. Il sistema produttivo di stampo schiavista fu poi trapiantato nell’isola atlantica di Madeira intorno al 1420, dopo che fu scoperta dai portoghesi. Verso la metà del Quattrocento i portoghesi aumentarono la produzione di zucchero deportando sull’isola un gran numero di schiavi neri, provenienti dalle stazioni commerciali sulla costa occidentale dell’Africa. Da principio questi schiavi venivano rapiti, ma i portoghesi presto acconsentirono a comprarli, in cambio di merci europee, dai mercanti di schiavi africani. Nel 1460 Madeira era diventata la più grande produttrice di zucchero del mondo, e non stupisce: aveva un clima ideale per la canna da zucchero, era vicina ai mercati degli schiavi ed era ai margini del mondo conosciuto, così le brutali condizioni degli zuccherifici venivano tenute opportunamente nascoste ai clienti europei, sempre più numerosi. Gli spagnoli, da parte loro, cominciarono a produrre zucchero nelle vicine isole Canarie, sempre avvalendosi di schiavi africani.
Tutto questo non fu che la “prova generale” di quel che accadde nel Nuovo mondo. Nel 1503 fu aperto il primo zuccherificio di Española. I portoghesi avviarono la produzione in Brasile all’incirca nello stesso periodo e i britannici, i francesi e gli olandesi organizzarono le prime piantagioni nei Caraibi nel XVII secolo. Quando il tentativo di ridurre in schiavitù le popolazioni locali fallì, soprattutto perché falcidiate dalle malattie del Vecchio mondo per cui non avevano anticorpi, i colonizzatori cominciarono a importare schiavi direttamente dall’Africa. E così ebbe inizio il commercio atlantico degli schiavi. Nel corso di quattro secoli, circa undici milioni di schiavi furono trasportati dall’Africa nel Nuovo mondo, anche se questa cifra non rende conto dell’esatta dimensione dell’orrore, perché la metà degli schiavi catturati nelle zone interne moriva prima ancora di arrivare sulla costa. La grande maggioranza degli schiavi trasportati attraverso l’Atlantico – circa i tre quarti – veniva messa a lavorare nella produzione di zucchero, che diventò uno dei principali beni del commercio atlantico.
Questo commercio si sviluppò nel XVII e XVIII secolo e finì per consistere di due triangoli che si intersecavano tra loro. Nel primo le merci delle Americhe, soprattutto lo zucchero, venivano esportate in Europa; da qui i prodotti finiti, soprattutto tessuti, venivano esportati in Africa e usati per comprare schiavi; e quegli schiavi venivano poi trasportati nelle piantagioni di zucchero del Nuovo mondo. Anche il secondo triangolo si basava sullo zucchero. La melassa, quel denso sciroppo che rimane dalla produzione dello zucchero, veniva portato dalle piantagioni alle colonie inglesi nel Nord America, dove veniva distillato in rum. Questo rum era poi esportato in Africa dove, insieme ai tessuti, veniva usato per comprare schiavi. Gli schiavi venivano spediti nei Caraibi per fare altro zucchero. E così via.
Oltre a spiccare per il suo ricorso alla schiavitù e per la sua importanza economica, la produzione dello zucchero definì anche un nuovo modello di organizzazione industriale. Lo zucchero implicava una serie di processi: tagliare la canna, spremerla per estrarne il succo, bollire il succo, schiumarlo e infine raffreddarlo così da permettere la formazione dei cristalli di zucchero e infine distillare in rum la melassa rimasta. Per fare tutto questo su larga scala, e nel modo più rapido ed efficiente possibile, furono introdotti macchinari sempre più elaborati e i lavoratori furono divisi in squadre specializzate nelle diverse fasi del processo.
In particolare, la produzione dello zucchero si basava sull’uso di macine rotanti per spremere la canna. Questo metodo dava più succo di quello precedente, che consisteva nel tagliare il gambo a mano triturandolo o usando una pressa a vite. Le macine a rotazione erano anche più adatte alla produzione continua: una volta pressati, infatti, i gambi potevano essere usati per alimentare le caldaie della fase seguente del processo. Il macchinario sviluppato per lavorare lo zucchero – alimentato da vento, acqua o energia umana – era la tecnologia più complessa e costosa dell’epoca e anticipò le macchine che sarebbero state poi usate nelle industrie tessili, nelle acciaierie e nelle cartiere.
Fondare una piantagione di canna da zucchero richiedeva l’investimento di grossi capitali per pagare la terra, gli edifici, i macchinari e gli schiavi. Le piantagioni erano insomma le più grandi iniziative private dell’epoca e i loro proprietari (che potevano aspettarsi profitti annui di circa il 10% del capitale investito) alcuni degli uomini più ricchi del tempo. È stato ipotizzato che i profitti dati dallo zucchero e dal commercio degli schiavi abbiano fornito il grosso del capitale operativo necessario all’industrializzazione britannica. In realtà, ci sono poche prove a sostegno di questa tesi, ma l’idea di organizzare la produzione come un processo continuo, a catena di montaggio, dotato di macchinari motorizzati che fanno risparmiare fatica e di operai specializzati in compiti particolari, ha un chiaro debito con l’industria dello zucchero delle Indie Occidentali, dove questo sistema comparve per la prima volta su larga scala.
L’idea di usare il cibo per sostenere tesi politiche più ampie si può far risalire al 1791, quando i consumatori britannici che volevano esprimere la loro opposizione alla schiavitù cominciarono a boicottare lo zucchero. Furono pubblicati pamphlet a non finire, compreso il manifesto volutamente scioccante della Società antisaccarina, con il disegno della sezione di una nave negriera che mostrava gli uomini ridotti in catene, ammassati l’uno sull’altro. La pubblicità che per volontà di James Wright, un commerciante quacchero, comparve nel 1792 su un giornale rende bene l’atmosfera di quel periodo: «Sicché essendo tormentato dalle sofferenze e dai torti subiti da quelle persone profondamente ferite, e anche dall’apprensione di incoraggiare la schiavitù, poiché vendo quell’articolo che sembra essere il principale sostegno del commercio degli schiavi, scelgo questo modo per informare i miei clienti che intendo smettere di trattare l’articolo dello zucchero fino a quando non potrò procurarmelo tramite canali meno contaminati, più estranei alla schiavitù, e meno lordati di sangue umano».
Gli attivisti sostenevano che, se solo trentottomila famiglie britanniche avessero smesso di comprare zucchero, l’impatto sui profitti dei coltivatori sarebbe stato grave abbastanza da porre fine al commercio degli schiavi. All’apice del boicottaggio uno dei leader della campagna affermò che trecentomila persone avevano rinunciato allo zucchero. Alcuni attivisti spaccarono le tazze da tè in pubblico, perché contaminate dallo zucchero. I tea party diventarono campi minati politici e sociali. Chiedere lo zucchero a una padrona di casa che non ne faceva uso era un vero e proprio passo falso. Eppure non tutto lo zucchero era cattivo: alcuni consideravano meno problematico dal punto di vista etico lo zucchero più costoso delle Indie Occidentali, finché non si venne a sapere che anche laggiù i lavoratori non erano uomini liberi. Quando la Gran Bretagna abolì nel 1807 la tratta degli schiavi, non fu chiaro se a essere decisivo fosse stato il boicottaggio o una serie di rivolte degli schiavi stessi. Qualcuno sostenne addirittura che il boicottaggio avesse peggiorato le cose; forse, quando i profitti erano calati, i latifondisti avevano riservato agli schiavi un trattamento ancora più crudele, ma indubbiamente il boicottaggio dello zucchero attirò l’attenzione sulla questione dello schiavismo e contribuì a mobilitare l’opinione pubblica.» (Una storia commestibile dell’umanità, Tom Standage, Codice Edizioni)
Le foto sono tutte di Tiziano Matteucci
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