Robyn Creswell, insegnante di letterature comparate alla Brown University di Providence nel Rhode Island, e Bernard Haykel, professore di storia e cultura del vicino oriente all’università di Princeton nel New Jersey, hanno pubblicato sul New Yorker un articolo – Battle lines – apparso in Italia su Internazionale col titolo La poesia dello stato islamico.
Io credo che questa finestra, aperta dai due autori su una realtà poco nota, meriti una maggiore attenzione da parte di tanti, soprattutto potenti politici ma anche gente comune.
Questo momento storico è molto complesso e richiede la piena comprensione del fenomeno che ci troviamo ad affrontare. Credo che leggere di un Osama Bin Laden, autore ed appassionato di prosodia classica araba, aiuti ad ampliare la comprensione tra esseri umani, in fondo, siamo un po’ tutti vanagloriosi poeti che scrivono versi battaglieri.
Battle lines
Vuoi capire i jihadist? Leggi la loro poesia
L’11 ottobre 2014 alcuni profili Twitter vicini al gruppo Stato islamico riferivano che nel tribunale di Raqqa, in Siria, una donna di nome Ahlam al Nasr aveva sposato Abu Usama al Gharib, un jihadista nato a Vienna vicino ai vertici del movimento. È raro che l’Isis pubblichi degli annunci di matrimonio sui social network, ma Al Nasr e Al Gharib sono una coppia che conta.
Al Gharib è un veterano della propaganda, passato da Al Qaeda all’Isis. La moglie è una giovane celebrità letteraria nota come “la poetessa dello Stato slamico”. La sua prima raccolta, Il bagliore della verità, è uscita online nell’estate del 2014 e si è rapidamente diffusa nei circuiti militanti. Su YouTube si trovano varie interpretazioni a cappella dei suoi testi (l’Isis ha vietato la musica strumentale). Il Bagliore della Verità raccoglie centosette poesie in arabo: elegie per i mujahidin, lamenti per i prigionieri, inni alla vittoria e poesie brevi nate come tweet. Sono quasi tutti testi monorimi (componimenti lunghi anche decine di versi in cui ricorre un’unica rima) scritti secondo la metrica classica araba.
Non si sa molto di Ahlam al Nasr. A quanto pare è originaria di Damasco e ha poco più di vent’anni. Secondo la madre, un’ex docente di diritto, Al Nasr “è nata con un dizionario in bocca”. Ha cominciato a scrivere poesie quand’era adolescente, soprattutto in difesa della Palestina. Nella primavera del 2011, quando in Siria sono scoppiate le prime proteste contro il regime del presidente Bashar al Assad, Al Nasr si è schierata con i manifestanti. Numerose poesie lasciano intendere che potrebbe aver assistito di persona a scene di repressione, radicalizzandosi in seguito a quest’esperienza:
I loro proiettili fracassarono i nostri cervelli come
terremoti,
incrinando e spezzando perfino le ossa più forti.
Trivellarono le nostre gole e sparsero
le nostre membra –
fu come una lezione di anatomia!
Annaffiarono le strade dove il sangue ancora scorreva
come fiumi precipitati dalle
nuvole.
Al Nasr si è rifugiata in uno degli stati del Golfo ma è tornata in Siria nel 2014, arrivando all’inizio dell’autunno a Raqqa, la capitale di fatto dell’Isis. Ben presto è diventata una sorta di poetessa di corte, la voce ufficiale della propaganda dello Stato islamico.
Ha scritto poesie in lode di Abu Bakr al Baghdadi, l’autoproclamato califfo dell’Isis, e nel febbraio del 2015 ha pubblicato un articolo di trenta pagine per difendere la decisione dei vertici di bruciare vivo il pilota giordano Moaz al Kasasbeh.
Nel racconto della sua emigrazione, Al Nasr descrive il califfato come un paradiso islamista, uno stato governato da persone senza macchia, dove gli abitanti si comportano secondo i dettami della religione. “Nel califfato ho visto donne portare il velo, tutti trattarsi con virtù, e le persone chiudere i negozi all’ora della preghiera”, scrive.
In quel periodo il ricordo delle vittorie dell’Isis a Mosul e nell’Iraq occidentale era ancora vivo. Per le strade della città, “i bambini giocavano con dei bastoni come fossero armi da usare contro eretici e miscredenti”. Celebrando i trionfi militari dell’Isis, Al Nasr li presenta come un nuovo inizio per l’Iraq:
Chiedete a Mosul, città dell’islam, dei
leoni –
come la loro fiera lotta ha portato
alla liberazione.
La terra di gloria si è spogliata dell’umiliazione
e della sconfitta
per indossare il mantello dello splendore.
Isis, Al Qaeda e altri movimenti islamisti producono un’enorme quantità di poesia. La maggior parte di questa produzione circola online, attraverso una rete clandestina fatta di social network, siti specchio e proxy, che hacker e servizi di sorveglianza fanno apparire e scomparire a velocità incredibile.
Nei siti militanti, i forum di discussione sulla poesia si trovano distici su eventi di attualità, gare tra poeti che si sfidano a colpi di virtuosismi lirici e raccolte da scaricare accompagnate da commenti eruditi (le note nel Bagliore della verità spiegano la complessa sintassi e gli insoliti schemi metrici).
Gli esperti tendono a ignorare questi testi, come se la poesia fosse un prodotto pittoresco ma tutto sommato poco rilevante del jihad.
Non è così.
È impossibile capire il jihadismo – i suoi obiettivi, il suo fascino agli occhi delle nuove reclute e il suo successo – se non si esamina la sua cultura. Questa cultura si esprime attraverso una serie di forme, compresi i canti e i video, ma la poesia occupa un posto centrale.
E, a differenza dei video di roghi e decapitazioni, pensati principalmente per un consumo estero, la poesia apre una finestra sul mondo interiore del movimento. È nei versi che i militanti articolano con più chiarezza la loro visione ideale del jihadismo.
“Al shir diwan al arab”, recita un antico detto: “la poesia è il registro degli arabi”, un archivio della loro esperienza storica e il simbolo della loro letteratura. Nella cultura araba l’autorevolezza della poesia è senza eguali.
I primi a comporre versi furono i nomadi del deserto, già secoli prima della rivelazione del Corano. Sono testi facili da memorizzare perché composti in monorima e in uno dei sedici metri di base. I poeti erano i portavoce delle tribù, celebravano le virtù della loro stirpe, maledicevano i nemici, evocavano amori perduti e piangevano i morti, soprattutto quelli caduti in battaglia.
Il Corano è severo con questi trovatori preislamici. “Solo coloro che hanno smarrito la retta via seguono i poeti”, si legge nella Sura dei Poeti. “Non vedi come errano in ogni valle, e dicono cose che non fanno?”. Però non era fu facile ignorare i poeti, e Maometto spesso preferì farne degli alleati. Diversi poeti tribali si convertirono e diventarono suoi compagni, lodandolo quando era in vita e dedicandogli versi elegiaci dopo la morte.
La cultura araba del periodo classico – circa dall’ottavo al tredicesimo secolo – aveva i suoi centri nelle corti dei califfati di Damasco, Baghdad e Córdoba. Nonostante quasi tutti i poeti ormai vivessero lontano dai pascoli dei bardi tribali, producendo componimenti scritti più che orali, gli aspetti essenziali della loro arte non era cambiata. I metri erano rimasti sostanzialmente gli stessi, così come i generi principali (lodi, invettive ed elegie per i morti), ed anche le forme nuove erano nate dalla tradizione. Nell’atmosfera raffinata della corte, le poesie dedicate al vino – in passato poco frequenti – diventarono un genere a sé.
I poeti contemporanei che scrivono in arabo leggono e traducono molti autori stranieri, e usano spesso il verso libero e la prosa poetica. Eppure, nonostante i modelli del passato abbiano perso parte della loro influenza, l’espressione poetica mantiene una notevole continuità. Le persone istruite capiscono e apprezzano la lingua del periodo classico. Il più modesto dei librai del Cairo o di Damasco vende edizioni di poesia medievale, e nei licei si studiano componimenti di epoca preislamica.
Inoltre la poesia antica rimane molto popolare. Uno dei programmi televisivi di maggior successo in Medio Oriente è Shair al milyun (Poeta milionario, ma anche Poeta del popolo), girato ad Abu Dhabi e ispirato al format di American idol. A ogni stagione dei poeti dilettanti provenienti da tutto il mondo arabo recitano i propri versi davanti a un enorme pubblico di appassionati. I vincitori portano a casa fino a 1,3 milioni di dollari. È più di quanto riceva il premio Nobel per la letteratura, come amano sottolineare i sostenitori del programma, che l’anno scorso è stato seguito da settanta milioni di persone in tutto il mondo.
Le poesie dei partecipanti sono molto convenzionali nella forma e nel contenuto. Evocano le bellezze della persona amata e della madrepatria, esaltano la generosità dei leader locali o denunciano i mali della società. In base al regolamento, i testi devono essere in rima e seguire uno schema metrico, e i commenti della giuria spesso riguardano la tecnica dei partecipanti. Dal programma sono nate una serie di celebrità letterarie.
Nel 2010 una donna saudita, Hissa Hilal, è diventata una beniamina del pubblico dopo aver recitato una poesia in cui criticava le posizioni intransigenti di alcuni religiosi sauditi. Durante la primavera araba un egiziano, Hisham Algakh, ha preso parte a uno spin of di Shair al milyun recitando poesie in sostegno ai manifestanti di piazza Tahrir. È diventato una star e ben presto le sue poesie sono state riprese dai manifestanti stessi.
Naturalmente le idee espresse nella poesia jihadista sono molto più sanguinarie di qualunque verso recitato a Shair al milyun: sciiti, ebrei, i poteri occidentali e i movimenti rivali sono continuamente denigrati e minacciati di distruzione. Eppure si tratta chiaramente di un sottoinsieme di questa popolare forma artistica.
È una poesia collettiva e sentimentale, a volte perfino un po’ kitsch. I video di gruppi di jihadisti che recitano poesie o intonano a turno il ritornello di una canzone sono frequenti quanto quelli in cui si vedono saltare in aria carri armati nemici. La poesia è concepita come un’arte sociale più che come una professione, e chi la pratica è sempre felice di esibire la propria bravura tecnica.
Può sembrare strano che alcuni degli uomini più ricercati al mondo trovino il tempo di comporre poesie usando i metri classici e la monorima (è più facile farlo in arabo che in inglese, ma richiede comunque una certa pratica). E questo è solo il segno più palese dell’importanza che attribuiscono alla forma. I loro testi sono pieni di allusioni, di parole ricercate e di figure barocche. Gli acrostici, in cui le lettere iniziali di ogni verso formano un nome o una frase, sono particolarmente popolari.
Una delle poesie di Al Nasr, in cui dichiara la propria dedizione all’Isis, si basa sull’acronimo del movimento, Daesh (“Daesh” è generalmente un epiteto denigratorio, e Al Nasr lo usa in modo provocatorio). L’evidente piacere che i militanti traggono dal proprio virtuosismo trasforma le loro poesie in performance.
Gli autori ci tengono a farci sapere che sono davvero poeti e rivendicano la particolare autorevolezza associata alla poesia nella cultura araba. Eppure la loro boria nasconde preoccupazioni profonde. Tutti i jihadisti hanno deciso di tagliarsi fuori dalla società, quindi anche dalle loro famiglie e dalle loro comunità religiose. È spesso una scelta difficile, che ha conseguenze durature. Presentandosi come poeti, come attori culturali profondamente radicati nella tradizione islamica araba, i militanti cercano di placare l’ansia di essere degli esclusi.
Il raid aereo che nel maggio del 2011 ha colpito il complesso di Abbottabad, in Pakistan, uccidendo Osama Bin Laden, ha portato anche alla scoperta di una parte della sua corrispondenza. In una lettera del 6 agosto 2010, Bin Laden chiedeva a un suo stretto collaboratore di segnalargli qualcuno in grado di condurre “una grande operazione negli Stati Uniti”. Nella frase seguente scriveva: “Se con te ci sono dei fratelli che si intendono di metrica poetica, ti prego di farmelo sapere, e se hai dei libri sulla scienza della prosodia classica, per favore mandameli”. Di tutti i poeti jihadisti, Bin Laden era il più apprezzato, ed era fiero delle sue conoscenze. Il nome del suo primo campo in Afghanistan, Al Masada (la tana del leone), era ispirato a un verso di Kab bin Malik, uno dei poeti tribali pagani convertiti che si unirono a Maometto.
Gran parte del carisma di Bin Laden nasceva dalla sua padronanza dell’eloquenza classica. Una delle sue poesie più emblematiche risale alla fine degli anni novanta, dopo il suo ritorno in Afghanistan nel 1996. È un testo di quarantaquattro versi diviso in due parti. Nella prima parla Hamza, il giovane figlio di Bin Laden, nella seconda il padre gli risponde. In molte poesie jihadiste ricorre l’immagine del bambino, presentato come la voce dell’innocenza e della sincerità.
Hamza comincia chiedendo al padre perché la loro vita è così piena di patimenti e per quale ragione non possono mai rimanere a lungo nello stesso posto. Lo stile e il tono di questa parte iniziale sono tipici di un genere preislamico chiamato rahil, in cui il poeta evoca le difficoltà del suo viaggio, si lamenta della solitudine e del pericolo e paragona il suo destino a quello di una serie di animali del deserto:
Padre, ho viaggiato a lungo attraverso
deserti e città.
È stato un lungo viaggio, padre,
attraverso valli e montagne,
così lungo che ho dimenticato la mia tribù,
i miei cugini, perfino l’umanità.
Hamza prosegue evocando l’odissea di Bin Laden e della sua famiglia: l’esilio dall’Arabia Saudita, il soggiorno in Sudan, l’espulsione e, alla fine, l’arrivo in Afghanistan, “dove gli uomini sono i più valorosi tra i valorosi”. Eppure anche in Afghanistan i militanti non trovano pace, perché l’America “manda una tempesta di missili simili a pioggia” (un riferimento ai missili da crociera usati nell’operazione Infinite reach del 1998). Alla fine Hamza si affida alla saggezza paterna.
Nella sua risposta Bin Laden riprende lo stesso metro e la stessa rima della parte precedente, creando un’impressione di rigore formale ma anche un senso di intimità. Bin Laden dice al figlio di non aspettarsi che la loro vita diventi più semplice: “Mi spiace, figlio mio, davanti a noi vedo solo un cammino arduo e ripido, / anni di emigrazione e di viaggi”. Ricorda a Hamza che vivono in un mondo dove la sofferenza degli innocenti, in particolare dei musulmani innocenti, è ignorata, dove “i bambini sono massacrati come bestiame”.
Eppure i musulmani stessi sembrano abituati alla loro umiliazione, “un popolo colpito dal torpore”. I versi più duri sono rivolti all’impotenza dei regimi arabi. “I sionisti uccidono i nostri fratelli e gli arabi organizzano una conferenza”, osserva con scherno Bin Laden. “Perché non inviano delle truppe per proteggere i nostri piccoli?”. Bin Laden capisce la sofferenza del figlio ma al tempo stesso spiega che i patimenti e l’esilio sono necessari, non solo perché l’ingiustizia è ovunque, ma soprattutto perché l’avversità è segno di elezione divina.
Quasi tutti i movimenti jihadisti sono convinti di rappresentare l’ultimo nucleo di autentici musulmani, un’avanguardia chiamata al ghuraba (gli estranei) nella tradizione. È anche il nome di un organo dell’Is e il titolo di un celebre canto jihadista. La metafora nasce da un hadith particolarmente importante per i militanti: “L’islam è cominciato come un estraneo e tornerà a essere un estraneo. Beati siano gli estranei”. L’islam è cominciato come un estraneo nel senso che i primi seguaci di Maometto furono perseguitati dai miscredenti della Mecca, finché decisero di fuggire a Medina.
Per i jihadisti, il loro esilio in terre straniere è la prova che sono gli estranei della profezia. Di fatto i jihadisti si considerano in esilio anche quando vivono in stati ufficialmente islamici, e la loro esclusione dalla comunità principale dei fedeli non fa che rafforzare la loro convinzione di essere nel giusto. Attraverso la sua struttura, la poesia di Bin Laden mette in scena il dramma dell’eredità. Bin Laden sta tramandando un dovere politico e una disposizione etica.
La trasmissione dei precetti culturali da una generazione all’altra è una preoccupazione costante per i jihadisti. I militanti sono circondati da nemici (stati arabi, fazioni islamiste rivali, lontane potenze occidentali) e costretti alla fuga. Hamza chiede: “Dove possiamo rifugiarci, padre, e quando potremo fermarci una volta per tutte?”.
Il fatto che gran parte della cultura jihadista sia online, e non su oggetti materiali, è un ulteriore ostacolo alla trasmissione della tradizione. Per questo i jihadisti, come molte altre comunità della diaspora, considerano essenziale lasciare una traccia dei propri successi ai posteri. L’infrastruttura dei loro archivi online (per esempio il Minbar al tawhid wal jihad di Abu Muhammad al Maqdisi, una miniera di pareri, manifesti e testi poetici religiosi) è molto sofisticata.
Non è un caso se l’elegia è il genere più diffuso: i componimenti per i guerrieri caduti (compresi gli attentatori suicidi) permettono sia di commemorare eventi significativi sia di dare ai militanti un calendario comune. Per i jihadisti le azioni dei martiri sono gli elementi su cui si costruisce la storia comune. Bin Laden stesso ha composto un’elegia per i diciannove dirottatori dell’11 settembre: “Abbracciando la morte, i cavalieri della gloria hanno trovato la quiete. / Hanno afferrato le torri con mani rabbiose e le hanno squarciate come un torrente”.
Al centro della visione politica dei jihadisti c’è il rifiuto dello stato-nazione. La mappa di gran parte del Medio Oriente moderno, stabilita da Francia e Regno Unito alla fine della prima guerra mondiale, è fonte costante di amarezza. In uno dei video più impressionanti dell’Isis si vedono dei jihadisti distruggere il valico di frontiera tra Iraq e Siria, un confine tracciato dal tristemente celebre accordo Sykes-Picot del 1916. Altri video mostrano i militanti che bruciano passaporti e carte d’identità.
I “santi guerrieri” trovano casa solo negli stati falliti come l’Afghanistan o, in questo periodo, la Siria orientale. La poesia del jihad promuove quindi una nuova geografia politica, che rifiuta i confini decisi dalle potenze straniere e si articola intorno a luoghi di militanza e di sofferenza islamica. Una poesia di Ahlam al Nasr disegna questa mappa combinando la visione politica del jihad con un cosmopolitismo visionario:
La mia patria è la terra della verità,
i figli dell’islam sono miei fratelli…
Non amo l’arabo del sud
più di quanto ami l’arabo del nord.
Fratello d’India, sei mio fratello,
come lo sei tu, fratello dei Balcani,
Nell’Ahwaz e ad Aqsa,
in Arabia e in Cecenia.
Se la Palestina grida
o se l’Afghanistan chiama,
se il Kosovo è oppresso,
o se sono oppressi l’Assam o il Pattani,
il mio cuore si protende verso di loro,
brama di aiutare chi è in difficoltà.
Non esiste differenza tra loro,
così insegna l’islam.
Siamo tutti un solo corpo,
questo è il nostro credo gioioso.
Siamo diversi per lingua e per colore,
ma tutti abbiamo la stessa vena.
Ahwaz è il nome arabo di una provincia meridionale dell’Iran dove gli arabi sunniti si considerano da tempo perseguitati. Pattani è una provincia a maggioranza musulmana della Thailandia, dove un movimento ribelle malese, attivo dagli anni sessanta, si è gradualmente islamizzato.
L’empatia espressa da Al Nasr per i musulmani che vivono in luoghi lontani è un aspetto centrale della sua personalità letteraria. Tra le decine di elegie raccolte nel Bagliore della verità, una è dedicata a un celebre jihadista ceceno e un’altra a un filantropo del Kuwait.
Questi momenti di estasi internazionalista sono frequenti nella poesia jihadista. I poeti si dilettano a oltrepassare con la fantasia dei confini che nella realtà sono insuperabili. Il califfato dell’Is, che come tale non è stato riconosciuto da nessun paese, è un mondo immaginario di confini fluttuanti dove tutto può succedere, anche la riconquista delle glorie del passato.
Nel marzo del 2014 il regno del Bahrein ha reso noto che i sudditi partiti a combattere in Siria avevano due settimane per tornare in patria, pena la perdita della nazionalità. Turki al Binali, un ideologo di spicco dell’Isis, un tempo suddito del Bahrein, ha risposto con Una denuncia della nazionalità, una poesia breve che sbeffeggia la monarchia e schernisce l’idea stessa di stato-nazione: “Dite loro che calpestiamo la loro nazionalità, come calpestiamo i loro decreti reali”, scrive. I jihadisti sono chiamati verso nuove frontiere: “Credete davvero che torneremo, ora che siamo qui in Siria, terra delle battaglie epiche e degli avamposti della guerra?”.
Gli avamposti evocati da Al Binali (ribat in arabo) erano, nel medioevo, le guarnigioni di frontiera tra gli stati islamici e i loro vicini, la Spagna cattolica e l’Impero bizantino. Oggi i ribat non esistono più. Il termine è un arcaismo, come l’uso della monorima e della metrica classica. La cultura jihadista si fonda su anacronismi di questo genere.
I video di propaganda mostrano militanti a cavallo che brandiscono spade e vessilli con scritte calligrafiche, ispirati a quelli dei primi conquistatori musulmani. La poesia jihadista ama abbandonarsi a simili fantasie. Muhammad al Zuhayri, un ingegnere giordano che online si fa chiamare “il poeta di Al Qaeda”, cattura questo spirito guerriero in una poesia dedicata ad Abu Musab al Zarqawi, il primo capo di Al Qaeda in Iraq. I versi sono rivolti a una donna senza nome:
Svegliaci con il canto delle spade
e quando la colonna di uomini a cavallo
si mette in marcia, da loro l’addio.
Il nitrito dei cavalli riempie il deserto,
destando i nostri animi e spronandoli
in avanti.
L’orgoglio dei cavalieri s’infiamma a quel suono,
mentre l’umiliazione sferza i nostri nemici.
La cultura del jihad è la cultura dei racconti cavallereschi. Promette avventure e afferma che i codici dell’eroismo e della cavalleria medievali sono ancora importanti. Poiché hanno rinunciato alla loro nazionalità, i militanti devono inventarsi un’altra identità, e sono ansiosi di convincersi che quell’identità non è nuova ma molto antica.
I cavalieri del jihad si presentano come gli unici veri musulmani e, anche se la loro potrebbe sembrare una lotta contro i mulini a vento, questa cultura produce l’effetto desiderato. Le reclute dell’Isis pensano di emigrare non in una polverosa zona di confine tra due stati al collasso, ma in un califfato con oltre mille anni di storia alle spalle.
Leggendo la poesia jihadista ci si accorge rapidamente che ha una forte componente teologica. La dottrina religiosa è il collante principale della cultura, e molti teologi jihadisti sono autori di poesie. Proprio come i poeti pensano di riportare in vita un’autentica tradizione poetica, così i teologi sono convinti di svelare e far rivivere i veri princìpi della fede.
Come teologi, i jihadisti sono in gran parte autodidatti. Leggono i testi canonici (tutti facilmente reperibili online) e sono restii ad accettare le interpretazioni tradizionali date dagli imam, accusati di nascondere la verità per deferenza verso i despoti. I jihadisti propongono un’interpretazione di tipo letterale, promettendo di spazzare via secoli di tradizione dottrinale e di offrire ai fedeli i veri insegnamenti della loro religione. È un messaggio che, sotto diversi aspetti, ricorda quello della riforma protestante: l’alfabetizzazione di massa, la democratizzazione dell’autorità religiosa e, sul piano metodologico, l’interpretazione letterale. Non sarebbe strano se qualcuno decidesse di affiggere le proprie tesi sulla porta di una moschea.
Tra i princìpi che i jihadisti cercando di sottrarre al controllo dei religiosi c’è il jihad. La lotta armata è da tempo accettata nella tradizione islamica, ma è stata raramente posta al centro dell’identità musulmana. Nel novecento molti studiosi la consideravano poco più che un residuo del passato.
Per i jihadisti questo atteggiamento ha contribuito al declino del mondo islamico. Sono convinti che dichiarare il jihad sia un aspetto centrale dell’identità musulmana, un imperativo etico e una necessità politica. E questa visione trova alcune delle sue espressioni più potenti nella poesia. Una di queste è l’Epistola ai detrattori di Isa Sad al Awshan.
È uscito nel 2004 nell’Antologia della gloria, una raccolta di poesie di militanti sauditi che all’epoca avevano provato a esportare il jihad internazionale nel regno saudita colpendo bersagli e impianti petroliferi occidentali. Il regime in seguito è riuscito a reprimere l’offensiva. I militanti sopravvissuti si sono rifugiati in Yemen, dove hanno dato vita ad Al Qaeda nella penisola araba.
Awshan, attivo nel mondo della propaganda e dell’editoria jihadista, è finito nella lista degli uomini più ricercati dall’Arabia Saudita, prima di essere ucciso durante una sparatoria a Riyadh. In una nota d’introduzione alla sua poesia, Awshan racconta che, dopo la pubblicazione del suo nome nella lista delle persone più ricercate in Arabia Saudita, “alcuni fratelli e amici mi hanno criticato, dicendo che avrebbero preferito che non intraprendessi questa strada – la strada del jihad e della lotta contro i miscredenti – perché è piena di ostacoli”.
Il detrattore è un’altra figura tipica della lirica antica. Nei componimenti preislamici, chi parla si presenta generalmente come un amante, un guerriero e un ospite di una generosità senza limiti. Il detrattore è la voce del super-io collettivo, che ricorda al poeta i suoi doveri verso la comunità. Come ha scritto lo studioso András Hámori, “il suo ruolo era provare a impedire al protagonista di compiere il gesto eroico”.
Nella poesia di Awshan, i detrattori sono dei musulmani devoti che dubitano della legittimità del jihad e temono che i militanti mettano in pericolo le loro comunità. Awshan spiega di avere scritto la sua epistola “per chiarire il cammino scelto e il motivo per cui l’ho seguito”. La sua poesia è un’apologia del jihad che comincia così:
Lasciatemi chiarire tutte le verità oscure
e levare la confusione in colui che
dubita.
Lasciatemi dire al mondo e a ciò
che vi è aldilà: “Ascoltate:
io dico la verità e non balbetto.
L’era della sottomissione al miscredente è
finita,
a colui che ci fa bere calici amari.
In quest’epoca di falsità, lasciatemi dire:
non desidero soldi né una vita di
agi,
ma il perdono di Dio e la sua grazia.
Perché è Dio che temo, non una banda di
criminali.
Mi chiedete della via
che ho intrapreso con zelo e
prontezza,
chiedete, preoccupati per me: “È questa
la retta via, il giusto
cammino?
È questa la strada del profeta?”
Nella poesia jihadista torna spesso la figura del detrattore, che invita alla cautela e dà il suo implicito beneplacito allo status quo, ricorrendo al linguaggio dei religiosi inerti e dell’autorità parentale. In un’altra poesia un martire si rivolge alla madre dall’oltretomba, dicendole di non piangere per lui e di non mettere in dubbio le sue scelte. “Mi sono lasciato alle spalle il mio sangue, madre”, scrive, “una scia che conduce al paradiso”.
I detrattori hanno diverse funzioni. Permettono al poeta di esibire la propria conoscenza della tradizione letteraria e di creare l’atmosfera arcaica. Servono anche da sfondo corale sul quale il poeta può stagliarsi nella sua posa da eroe solitario. E, mostrandosi scettici sull’opportunità del jihad, permettono al poeta di chiarirne le virtù. Affermare pubblicamente le proprie convinzioni è un elemento centrale dell’etica jihadista.
Quando il resto del mondo è tuo nemico, e quando i tuoi correligionari sono troppo timorosi per dire la verità, dichiararsi jihadista – giurare fedeltà all’emiro di Al Qaeda o al califfo dell’Is – è una prova di coraggio. L’Epistola di Awshan è ricca di verbi che esprimono l’atto di esporsi e di dichiararsi. Dopo aver condannato l’invasione statunitense dell’Iraq del 2003, Awshan scrive:
Ho annunciato che non ci sarebbe più stata pace
fino a che le nostre frecce non avessero sbaragliato il nemico.
Ho imbracciato la mitragliatrice con
la determinazione del mujahid
e ho seguito la mia via con
animo impetuoso.
Voglio una di queste due cose buone:
il martirio,
o la liberazione dal potere dispotico.
Per il jihadista, la poesia è un modo per dichiarare le proprie convinzioni o per portare la propria testimonianza. Non c’è spazio per le sfumature. Il compito del poeta è difendere apertamente e lucidamente la propria fede di fronte a chiunque dubiti, in patria come all’estero. Deve avere il coraggio di dire le verità che i suoi genitori e gli anziani della sua comunità vorrebbero tenere nascoste. Un’altra poesia dell’Antologia della gloria comincia con un ammonimento d’ispirazione classica: “Silenzio! Le parole sono per gli eroi / e le parole degli eroi sono atti”.
Circondato da scettici, il poeta jihadista si presenta come un cavaliere della parola, ovvero come un martire in divenire. Quando Ahlam al Nasr è arrivata a Raqqa nel 2014, l’Isis le ha organizzato un giro della città. Al Nasr ha raccontato l’esperienza in un lungo testo in prosa rivolto alle “sorelle” e diffuso dai mezzi d’informazione del gruppo.
Camminando per le strade di Raqqa, Al Nasr osserva che i mercati sono pieni di verdura fresca e che gli uomini si esortano l’un l’altro a seguire l’esempio di Maometto smettendo di fumare. Le permettono di cucinare per i militanti, cosa che la riempie di gioia: “Continuavo a ripetermi: ‘Questo cibo sarà mangiato dai mujahidin, questi piatti saranno usati dai mujahidin”.
La portano anche a visitare un negozio di armi, dove impara a montare e a smontare dei fucili statunitensi e russi. “Tutto questo succedeva in Siria, sorelle, davanti ai miei occhi”, scrive. Per Al Nasr il califfato è un’utopia islamista, non solo perché è un posto dove i musulmani si comportano come dovrebbero, ma perché è un luogo di nuovi inizi.
Per molti osservatori Raqqa oggi è una società totalitaria, ma per Al Nasr e le altre reclute è una frontiera dove tutto è fluido e in continua evoluzione, non solo i confini politici ma anche le identità personali.
Nei movimenti jihadisti è insolito che le donne abbiano un ruolo pubblico come quello di Al Nasr, ma l’Isis vuole che le donne siano in prima linea nella guerra della propaganda. L’Isis ha anche creato una polizia morale femminile, un oscuro gruppo chiamato brigate Al Khansa, incaricato di sorvegliare la condotta degli abitanti nelle città controllate dall’Isis.
I mezzi d’informazione occidentali in genere descrivono le reclute femminili dell’Isis come delle ingenue che finiscono a fare le schiave sessuali, ma è un dato di fatto che nessun altro gruppo militante islamista ha saputo attirare tante donne. In uno degli ultimi numeri di Dabiq, la rivista in inglese dell’Isis, una redattrice incoraggia le donne a emigrare “nelle terre dello Stato islamico”, anche se vuol dire viaggiare senza un accompagnatore, una rottura notevole rispetto alla legge islamica tradizionale.
Potrebbe essere un cinico stratagemma per adescare delle donne fuggite di casa, ma è comunque coerente con la critica jihadista dell’autorità parentale e con l’importanza data all’affermazione individuale, in particolare al potere delle donne credenti di rinnegare le famiglie che non considerano realmente musulmane.
La carica radicalmente innovativa della società proposta dall’Isis forma uno strano contrasto con la cultura consapevolmente arcaica del movimento, ossessionato dalla purezza, dalle verità religiose nascoste e dalle forme letterarie classiche. Le brigate Al Khansa sono un esempio emblematico.
Al Khansa era una poetessa preislamica che si convertì all’islam unendosi ai compagni di Maometto. Le elegie che compose per gli uomini della sua cerchia sono diventate dei classici del genere. Il nome delle brigate evoca quindi un forte legame con il passato, eppure nella storia dell’islam non è mai esistito nulla di simile a questa polizia morale, che del resto non ha equivalenti neppure nel resto del mondo arabo contemporaneo.
Per i militanti, naturalmente, questa non è una contraddizione. Ai loro occhi il califfato rappresenta la resurrezione del passato nella sua purezza. Nei suoi diari su Raqqa, Ahlam al Nasr descrive la capitale dell’Isiscome un luogo di miracoli incessanti, una città dove i credenti possono venire a rinascere nell’antica e autentica fede. Nel califfato, scrive, “ci sono molte cose che finora abbiamo conosciuto solo attraverso i libri di storia”.
Fonte articolo originale: New Yorker
Fonte immagini: All Islam
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