La grande famiglia delle palme (Arecaceae) comprende 202 differenti generi divisi in 8 tribù per circa 2.600 specie ed è una delle più antiche famiglie vegetali.
I fossili del polline, del frutto e del guscio di un tipo di palma, la nypa fruticans, risalenti all’Eocene (70 milioni di anni fa), sono stati trovati in India ma anche nel Regno Unito. Un fossile di nypa è stato trovato nei primi sedimenti dell’Eocene sulla costa occidentale della Tasmania e fossili di nypa sono stati recuperati in tutto in Nord e Sud America. La distribuzione a livello mondiale di questa pianta è considerata, quindi, elemento di prova di come l’Eocene fosse un epoca geologica di riscaldamento globale antecedente la formazione delle attuali calotte polari.
Nypa fruticans in thailandese è chiamata jaak — จาก, mentre in inglese è conosciuta come nypa palm e mangrove palm, in quanto unica della famiglia delle palme ad essere compresa nel bioma mangrovia.
La palma delle mangrovie è un albero insolito, ha un tronco orizzontale che cresce quasi interamente sotto terra e solo le foglie e i gambi dei fiori crescono verso l’alto sopra la superficie. Le foglie possono estendersi fino a 9 metri di altezza. Queste palme crescono nel fango morbido, in acque tranquille ed influenzate dalle maree che portano sostanze nutrienti ma possono sopravvivere, occasionalmente, anche ad un breve periodo di siccità. Le piante si possono trovare anche molto all’interno del corso dei fiumi ma non oltre il limite entro il quale la marea può depositare i frutti galleggianti. Oggi è comune sulle coste e i fiumi dell’Oceano Indiano e Pacifico, dal Bangladesh alle isole dell’Oceania.
Il frutto (infruttescenza) di nypa è un ammasso di noci legnose attaccate ad un unico stelo ed ha un altissimo contenuto di zucchero, elemento abbondante anche nella linfa della pianta. In India e Malesia la linfa zuccherina viene utilizzata per preparare uno sciroppo dolciastro che a sua volta può essere la base per la preparazione di distillati alcolici. In alcune isole indonesiane la linfa estratta dalla palma è invece utilizzata nell’alimentazione dei maiali per conferire alle carni un sapore dolciastro.
Nelle aree costire del sudest asiatico le fronde opportunamente seccate di nypa fruticans sono utilizzate per la copertura di costruzioni e palafitte usate sia per scopi abitativi che di riparo dal sole. Le fronde sono inoltre utilizzate in artigianato per intrecciare stuoie, ceste ed altri utensili domestici.
Nella medicina tradizionale i giovani germogli di nypa sono usati come vermicidi e la cenere è utilizzata come analgesico contro il mal di testa ed il mal di denti, nonché per il trattamento dell’herpes.
In Thailandia la polpa del frutto, traslucida e gelatinosa, viene utilizzata come ingrediente per un dessert.
Con la fermentazione degli zuccheri contenuti nella linfa si producono anche etanolo o butanolo (biofuel).
«All’inizio del XXI secolo sono sorti rinnovati timori sul legame tra le fonti energetiche e una sufficiente disponibilità di terra per la produzione alimentare, timori dovuti al crescente entusiasmo per i biocarburanti, come l’etanolo derivato dal mais e il biodiesel ricavato dall’olio di palma. L’idea di produrre carburanti da queste colture è allettante, perché si tratta di una fonte rinnovabile di energia (potete coltivarne dell’altro l’anno seguente) e durante il suo ciclo vitale può generare meno emissioni di carbonio dei combustibili fossili. Mentre crescono, le piante assorbono anidride carbonica dall’aria; quindi vengono trasformate in biocarburante e l’anidride carbonica torna nell’atmosfera quando il carburante viene combusto. L’intero processo sarebbe dunque neutro, rispetto al carbonio, non fosse per le emissioni dovute in primo luogo alla coltivazione (fertilizzante, carburante per trattori e così via) e poi alla trasformazione in biocarburanti (processo che di solito richiede molto calore). Ma quanta energia esattamente ci voglia per produrre i diversi biocarburanti, e il livello di emissioni di carbonio associate al processo, varia da coltura a coltura. Dunque certi biocarburanti hanno più senso di altri.
… i biocarburanti non sempre sono in competizione con la produzione alimentare. In certi casi è possibile coltivare piante per biocarburanti su terreni marginali che non sono adatti ad altre forme di agricoltura, e queste piante non devono per forza essere commestibili. Un approccio potenzialmente promettente è quello dell’etanolo cellulosico, l’etanolo ottenuto da arbusti legnosi a crescita rapida, o anche da alberi. In teoria dovrebbe essere svariate volte più efficiente dal punto di vista energetico anche dell’etanolo da canna da zucchero, e potrebbe ridurre le emissioni di gas serra in modo sostanziale (una riduzione del 70% circa rispetto ai combustibili fossili), senza invadere i terreni agricoli. Il problema è che si tratta di un settore ancora giovane, inoltre ci vogliono enzimi costosi per degradare la cellulosa in una forma che possa essere trasformata in etanolo. Un altro approccio prevede la produzione di biocarburanti dalle alghe, ma anche in questo caso la tecnologia è appena agli inizi.
Una cosa è chiara: l’uso delle colture alimentari per ottenere biocarburanti è un passo indietro. Il logico passo in avanti, dopo il Neolitico e le rivoluzioni industriali, è sicuramente quello di trovare nuovi modi per sfruttare l’energia solare al di là dell’agricoltura e dell’estrazione di combustibili fossili. I pannelli solari e le turbine eoliche sono i due esempi più ovvi, ma è anche possibile lavorare sul meccanismo biologico della fotosintesi per produrre celle solari più efficienti oppure creare con l’ingegneria genetica microbi capaci di sfornare biocarburanti. Il trade-off tra cibo e carburante è oggi tornato alla ribalta, ma in realtà viene dal passato.»
(Una storia commestibile dell’umanità – Tom Standage – Codice Edizioni)
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