Con la caduta quasi fulminea a metà maggio della città irachena di Ramadi e della siriana Palmira, la Coalizione internazionale anti-Isis, a guida statunitense, ha dovuto rivedere il proprio modus operandi e ricercare le cause dell’inefficacia delle proprie azioni.
Secondo gli analisti militari sono state fondamentalmente tre le cause che hanno portato a queste gravi disfatte: la notoria inefficienza e scarsa volontà delle truppe regolari irachene di combattere il nemico, l’inefficienza della campagna di bombardamenti alleati e l’assenza di un coordinamento con le forze armate del Presidente siriano Bashar al-Assad.
L’esercito repubblicano dell’Iraq ha subito una nuova sconfitta per la corruzione diffusa specialmente tra gli ufficiali di alto rango, scarsa determinazione della truppa impiegata al fronte e divisioni settarie ereditate dai tempi di Saddam Hussein. Si tratta degli stessi motivi che portarono, nel gennaio 2014, alla disastrosa ritirata dei suoi uomini da Mosul e dal resto del nord del paese, consentendo così all’Isis di estendere il suo territorio oltre la Siria e di proclamare la nascita del Califfato nel giugno 2014.
Secondo una stima statunitense, l’applicazione di regole d’ingaggio troppo restrittive per i piloti porta allo sganciamento di bombe sugli obbiettivi solo in una missione su quattro. Questo equivale a dire che tre volte su quattro gli obiettivi non vengono colpiti. Limitare i bombardamenti indiscriminati in zone abitate, più che una scelta militare, è una scelta morale o perlomeno di gestione dell’opinione pubblica. Nonostante ciò, questa scelta diminuisce il potenziale degli alleati e consente alle forze jihadiste di ammassare uomini e mezzi in determinate aree per sferrare successivamente attacchi potenti e veloci.
Riguardo allo scarso coordinamento delle forze della Coalizione con le forze armate del governo siriano, bisogna tenere presente che della Coalizione fanno parte Arabia Saudita e Qatar, Paesi da dove arrivano ingenti finanziamenti al Califfato, rendendo il loro ruolo poco convincente all’interno dello scenario operativo.
Questo insieme di motivi ha portato nello scorso giugno, nonostante la tenacia delle truppe regolari siriane, gli uomini dello Stato Islamico alle porte della capitale Damasco ed a controllare più della metà del territorio siriano.
Proviamo però a vedere chi sono le forze chiave dell’alleanza che si contrappone alle Stato Islamico: i primi sono i curdi, che hanno riconquistato parte delle province di Diala e Ninive in Iraq e rotto l’assedio di Kobane rioccupando alcuni cantoni del Rojava nella Siria settentrionale; poi ci sono i pasdaran delle brigate iraniane Quds, grazie ai quali è stato possibile portare avanti la controffensiva invernale e la riconquista di Tikrit; ultimi, ma non meno importanti, gli Hezbollah siriani che hanno affrontato per mesi le forze del Califfato e le milizie di Al Nusra, impedendo lo sconfinamento di queste ultime in Libano.
Dai curdi non ci si può aspettare più di quanto stiano facendo, sono limitati sia nel numero degli effettivi sia nel numero degli armamenti in loro possesso (anche se non si sono mai tirati indietro quando è stato chiesto loro di supportare una qualche offensiva nei loro settori).
Gli iraniani, invece, hanno ben radicato la loro presenza sul territorio iracheno, disponendo sia di un gran numero di unità di prima linea sia di seconda linea (da utilizzarsi principalmente nel controllo di checkpoint strategici). Ultimamente fonti parlamentari iraniane hanno anche fatto sapere di voler approvare, nei tempi più brevi possibili, le richieste dei comandanti sul campo riguardanti l’invio di ulteriori uomini e veicoli corazzati. C’è da tenere presente che nel conflitto le brigate sciite dispongono già di quasi 20.000 effettivi, quasi tutti impiegati nelle operazioni degli ultimi mesi attorno a Tikrit (a fronte dei soli 3.000 uomini messi in campo dall’Iraq).
Ad inizio giugno il Presidente statunitense Barack Obama ha chiesto ai suoi di ricercare nell’immediato una nuova strategia operativa, che però non preveda i “boots on the ground“, gli stivali sul terreno, a fronte della grande spesa e delle inevitabili perdite umane che questa strategia comporterebbe.
Appare però evidente che i risultati maggiori vengono riportati dagli uomini sul campo e che la vittoria si può raggiungere solo se si amplia il controllo sull’area delle operazioni, riducendo la possibilità di manovra del nemico, tagliandone le linee di rifornimento, attaccando i militanti e distruggendo i mezzi nemici ogni qual volta se ne presenti l’occasione. Per ora la Coalizione punta a cacciare dall’Iraq gli jihadisti per poi passare alla Siria. Se tra qualche mese ci sarà ancora una Siria!
Fonte immagine: Daily Mail