Le parole di Umberto Eco su rete e idiozia hanno aperto un’interessante discussione sui media alla quale per ultima si è aggiunta la lettura sociale di Stefano Rodotà. Il giurista ha aggiunto importanti spunti di riflessione che mettono in evidenza un aspetto considerato secondario dai più, che si rivela fondamentale per la comprensione di fenomeni quali la connessione planetaria, vera misura di quella che comunemente chiamiamo globalizzazione:
“Tutti i mezzi di comunicazione hanno dato voce anche a generazioni di imbecilli. È la scala del fenomeno che ha colpito giustamente Eco”, ha commentato Stefano Rodotà. “Ormai chiunque in possesso di un qualunque strumento elettronico può mettere in rete qualsiasi cosa senza controllo”. Poi però il costituzionalista distingue: “Le generazioni di imbecilli che usano la rete ci fanno vedere che nella società ci sono delle cose che non vedevamo prima”. Insomma, “si tratta di vedere come limitare l’imbecillità, ma quando questa ci rivela qualcosa della società, è importante”. Il costituzionalista è da tempo impegnato sul tema dei limiti della vita online: “Stiamo lavorando in questo momento ad alcune regole, l’inventore della rete Tim Berners-Lee sta scrivendo insieme a varie persone, tra le quali anche io, una Magna Carta per Internet”.
La riflessione di Rodotà fa emergere una contraddizione di fondo, pensare alla rete come ad un qualsiasi strumento (media) atto a comunicare. A differenza di tutti gli altri strumenti tecnici, più o meno complessi, che quotidianamente utilizziamo per comunicare e scambiare informazioni, la rete non deve essere confusa col mezzo attraverso il quale si comunica, ma è l’ambiente mediale nel quale si riproducono digitalmente tutti gli strumenti che hanno fatto la storia della comunicazione, e dunque dell’umanità. Le discussioni informali al bar, la parola stampata su carta, il paesaggio dipinto su tela, la musica prodotta manualmente ed incisa sul disco in vinile, il film che scorre sulla nostra televisione o al cinema in passato non avevano alcun supporto fisico o tecnologico in comune. Per crearli e riprodurli venivano infatti utilizzati strumenti e tecnologie tra loro incompatibili. I supporti materiali della comunicazione erano differenti e identificavano mondi sensoriali, universi percettivi e modalità di fruizione, ricezione e consumo separate. Tutti gli attori impegnati nella comunicazione, a qualsiasi livello, operavano con codici diversi, difficilmente integrabili gli uni agli altri e che in molti casi presupponevano un elevata professionalità e conoscenza degli strumenti e delle tecniche di produzione del messaggio.
L’arrivo sulla scena dei media digitali, creando un’unica codifica per tutte le produzioni culturali, ha definitivamente inglobato in se i diversi codici e dato vita ad un unico ambiente cognitivo a dimensioni multiple nel quale il fruitore non è più il passivo lettore del libro piuttosto che l’attento uditore di un opera lirica ma un nuovo soggetto che, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, accedendo con la sua identità virtuale in questo mondo informativo che è la rete, ha la possibilità di fruire di tutti i contenuti che semplicemente gli interessano, modificandone il contenuto o adattandolo alle proprie esigenze personali.
Questo aspetto partecipativo muta sostanzialmente l’atto comunicativo in sé, come qualcosa che si esprime insieme in forma sonora, verbale, iconica. Un nuovo modo di mixare informazioni in un’unica opera digitale diffusa tra i nodi della rete, un ambiente mediale che permette di accumulare e trasmettere saperi come mai prima nella storia dell’umanità e che coinvolge l’individuo nella quasi totalità delle percezioni sensoriali. La modalità ipertesto (o ipermedia) è infatti un corpo unico che include suoni, parole, immagini statiche e in movimento, permettendo una risposta immediata agli stimoli ricevuti.
La nuova convergenza digitale muta e aumenta le possibilità creative, operative e divulgative degli attori comunicativi che non si identificano più unicamente nell’èlite di produttori di contenuti che nell’epoca della carta stampata e delle produzioni culturali altamente specializzate potevano accedere al mondo degli autori, in quanto proprio la produzione di contenuti in formato digitale non presuppone quell’alta specializzazione richiesta dai codici di produzione materiale.
Ciò non vuol dire che tutto sia degno di nota o che tutte le produzioni si possano definire “artistiche”. In rete il metro di valutazione è quel feedback che solo se positivo eleva la produzione allo stato di opera rappresentativa di senso condiviso. Oggi proliferano musicisti che non sanno suonare, dj che non sanno girare i dischi e opere d’arte generate digitalmente e stampate in 3D. Per non parlare dei libri di Fabio Volo.
Il progresso tecnologico ha portato nelle mani di ognuno di noi gli strumenti del comunicare e del creare contenuti, il tutto connettendoci in tempo reale attraverso una rete grande quanto il pianeta. Il senso di quel Villaggio Globale che a partire dalla fine degli anni sessanta ha caratterizzato la discussione sulle ripercussioni sociali dei media trova perfetta sintesi nell’esperienza comunitaria riprodotta nel mondo della rete. Il senso di appartenenza oggi non si identifica più esclusivamente con la presenza fisica in un dato luogo, ma è il frutto delle esperienze cognitive che ognuno sceglie di avere anche e soprattutto connettendosi al sistema rete. Per questo capita sempre più spesso di sentirsi coinvolti emotivamente da esperienze lontane da noi fisicamente, ma che giudichiamo inevitabilmente condivisibili. Sappiamo bene che la terra è grande esattamente quanto lo era 200 anni fa, ma la nuova proporzione sociale introdotta dalla rete ci rende partecipi di comunità che percepiamo vicine come un tempo succedeva abitando un villaggio.
La rete dunque non è un semplice medium che veicola informazioni, ma quello che è stato definito “un ponte da abitare”, ossia una connessione tra luoghi culturali che diventa essa stessa “luogo”. Il modo in cui le informazioni vengono prodotte, scambiate e accumulate da nuova forma alla società che trova il suo doppio virtuale in rete, nasce in rete e si incontra in questo che qualcuno ha definito il moderno mediterraneo. Il fatto stesso che si tratti di un doppio virtuale del mondo reale deve farci riflettere sulle ripercussioni che questo nuovo ambiente provoca sul suo originale reale, quello che comunemente abitiamo con la nostra vera identità, e che ogni giorno di più riflette i cambiamenti imposti dalle nuove proporzioni sociali derivanti dall’incredibile combinato tecnico-biologico di natura virtuale.
In questo nuovo universo cognitivo il fenomeno dei social network è entrato di prepotenza, con algoritmi che ne fanno una vetrina virtuale pensata per esasperare il desiderio intimo di apparire, negando contemporaneamente ad ognuno la possibilità di essere. Questo in virtù del fatto che i contenuti sui social vivono della condivisione istantanea di significanti più che di significati, lasciando poco o nessuno spazio spazio alla riflessione e all’interiorizzazione del contenuto. Come tutti gli ambienti aperti al pubblico l’accesso non viene negato a nessuno, compresi quelli che del mezzo fanno un uso poco rispettoso dell’identità altrui. L’idiota sui social rispecchia perfettamente l’idiota del bar, ne è perfetto duplicato con la sola differenza che la rete lascia inevitabilmente traccia della propria mediocrità, che sommandosi alla massa di suoi simili di giorno in giorno da la cifra dell’evoluzione dell’uomo. Ma questo con la rete c’entra poco.
Assodato che le comunità virtuali hanno le loro regole e determinano le leggi con le quali si viene riconosciuti facenti parte della comunità stessa, parlare di imbecilli che hanno il diritto di parola in comunità delle quali non si ritiene di far parte lascia il tempo che trova, specie se si ha facoltà di evitare determinate frequentazioni scegliendo di volta in volta l’ambiente mediale col quale confrontarsi piuttosto che i contenuti che si preferisce fruire. Siamo noi che scegliamo quale ambiente mediale frequentare, possiamo scegliere se ricercare il like a tutti i costi condividendo gli istinti del momento o approfondire un argomento o una personale propensione in comunità di discussione meno frequentate dei social che vanno tanto di moda oggi. Passare del tempo in rete vuol dire scegliere se leggere un e-book, approfondire un argomento su wikipedia o perdere tempo dietro l’idiozia disordinata che impera su Facebook. C’è infatti un aspetto della vita di ognuno di noi che resta immutato nonostante la rete, la capacità di scegliere a chi e a cosa dare importanza o evitare. Al bar come nel più innovativo dei social network.
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