L’albero delle palle di cannone è così chiamato a causa della forma del frutto, che tra l’altro non è commestibile e, quando aperto, puzzolente. Il nome scientifico di questa pianta è Couroupita guianensis, in inglese è conosciuto come cannonball tree mentre in lingua thailandese si chiama สาละลังกา (saalàlangga – albero di Ceylon).
In Thailandia l’albero delle palle di cannone è spesso piantato e venerato nei templi perché scambiato per l’albero di Sal, la Shorea robusta (in thailandese: สาละ – saalà), l’albero sotto cui, secondo la tradizione, è morto il Buddha.
Anche in occasione delle due foto (scattate in due wat molto distanti tra loro) sotto l’albero c’era un targhetta con scritto saalà invece di saalàlanggaa.
Lalbero delle palle di cannone è certo è originario del Sud America e venne introdotto in Oriente solo alla fine del Diciannovesimo secolo. Quindi mi spiace per i credenti ma nulla ha a che fare col Buddha, morto almeno 400 anni prima dell’Era Comune.
In un post precedente ho accennato ai tanti libri sacri esistenti. Non mi meraviglia la presenza di miliardi di credenti sulla Terra. Sono almeno 5.000 anni che si parla, si scrive e si legge di religione (il romanzo vero e proprio nasce nel secolo XI d.C.) ed ancora oggi, non ultimo in Thailandia, l’editoria religiosa ha ancora un’importante produzione.
Ma credere in una qualche religione non dimostra che esistano un dio, un paradiso o la reincarnazione.
Cristiani ed ebrei credono nel medesimo Dio, anche se solo gli ebrei sono considerati il popolo eletto. In paradiso vanno cristiani e musulmani, per ora ciascuno nel proprio, ma sono due religioni che spesso utilizzano precetti religiosi come norma se non legge dello stato (abitudine in decadenza tra i cristiani, ma ancora molto praticata nei Paesi a maggioranza musulmana). Diamo tempo al tempo e forse si ritroveranno nel medesimo paradiso. Per induisti e buddhisti c’è la reincarnazione e quindi potrebbe loro accadere di reincarnarsi in un essere praticante un’altra religione. Questo solo per accennare alle religioni più note e diffuse. (1)
Scrive Simon Blackburn:
«Le credenze, si suppone, sono vere. “Io credo che p” e “Io credo che sia vero che p” sono equivalenti. Non possiamo dire: “Io credo che le fate esistono, ma non penso sia vero che le fate esistono”. Sembra che le persone religiose credano in molte cose in cui le altre persone non credono.
Tuttavia, che la religione sia una questione di verità, o che gli stati mentali connessi alla religione possano essere considerati in termini di verità e falsità, non è affatto una cosa ovvia. Forse accettare una religione è più come godere di una poesia o seguire il calcio: un’immersione in un insieme di pratiche che hanno solo un valore emotivo o sociale. Forse i riti religiosi servono solo a necessari fini psicologici e sociali: i riti della nascita, di passaggio, della morte servono a questo. È sciocco chiedere se la celebrazione di un matrimonio è vera o falsa, e la gente non va a un funerale per ascoltare qualcosa di vero, bensì per amore della persona perduta o per meditare sulla fine della vita. Chiedere se queste cose siano vere o false è altrettanto inappropriato quanto chiedere se è vera l’Ode a un’urna greca di Keats. La poesia funziona (o non funziona) in una dimensione completamente diversa, e lo stesso vale per la basilica di San Pietro o per una statua del Buddha: possono essere magnifiche, commoventi, possono ispirare un timore reverenziale, ma questo non accade certo perché fanno asserzioni vere o false. Questo modo di intendere la religione non è però molto comune. Pur ammettendo gli aspetti emotivi e sociali, le persone ritengono quasi sempre di fare affermazioni precise sul mondo, affermazioni letteralmente vere, argomentabili e dotate di evidenza empirica.
Così, se qualcuno dice “Dio esiste”, non è come se dicesse “L’abominevole uomo delle nevi esiste” (un’asserzione che ha, oppure no, un fondamento empirico) o “I numeri primi tra 20 e 30 esistono” (una questione matematica): fare un’affermazione di questo tipo, è come esprimere gioia o paura (o, in maniera più sinistra, esprimere odio per gli estranei o gli infedeli). Perciò quello che viene detto in ambito religioso è immune da critiche su verità o falsità. Tutt’al più, possiamo esaminare gli stati mentali coinvolti cercando di stabilire se siano o meno lodevoli.» (Pensa, di Simon Blackburn, Ed. Il Saggiatore)
Essere credenti o non esserlo, forse, significa solo credere o non credere. Inutile affrontare le religioni dibattendo di verità o falsità.
Nel post precedente, parlando dei libri sacri, concludevo proponendo di guardare alle religioni come idee prodotte dall’uomo e non prodotti divini, visione d’altra parte già presente in alcune religioni. Ma non si adombrino coloro che, cristiani e musulmani in primis, considerano il loro libro sacro emanazione diretta di un dio. Non pongo divieti e neppur discuto la divina provenienza del loro “libro sacro”, invito solo a ragionare. E per non disperdere inutilmente forze e pensieri, cerco di stabilire gli ambiti entro cui leggere, parlare e ragionare di religione. Perciò, ho proposto di concentrare l’attenzione sull’uomo, e non credo che ciò possa dare danno a qualcuno. L’altro ambito ora assunto è che, nel ragionare di religione, è inutile la ricerca della verità o della falsità. Anzi, a quanto pare, si rafforza la necessità di guardare all’uomo ed al suo comportamento.
(1) Cristianesimo non è sinonimo di cattolicesimo. I cristiano cattolici sono il 17,5% della popolazione mondiale e circa la metà dei cristiani, che ammontano al 33% circa della popolazione mondiale.
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