Il libro di David Graeber, Debito: I primi 5000 anni, non è un libro di favole ma a me, dopo poche pagine, è piaciuto leggerlo come se lo fosse. Ci sono studiosi che raccolgono fatti da documenti o culture talmente antiche da sembrare racconti di fiaba.
Le fiabe sono tra i racconti più spaventosi che esistano, ma nell’ascoltarle o nel leggerle puoi sempre sperare che le “cose della vita” migliorino. Certo non domani o dopodomani, forse tra mille anni, chissà… il Lupo potrebbe non ingannare e mangiare Cappuccetto Rosso evitando al Cacciatore di compiere violenze giustificate dalla necessità …
“… ci sono tre principi morali su cui si possono fondare le relazioni economiche in ogni società umana: il comunismo, la gerarchia e lo scambio”. (Debito. I primi 5000 anni – David Graeber – Ed. Il Saggiatore)
A seguire, un estratto da Debito:
Definirò qui il comunismo come una qualsiasi relazione umana che operi secondo il principio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni»
Ammetto che l’uso che ne faccio è un po’ provocatorio. «Comunismo» è una parola che suscita forti reazioni emotive, soprattutto perché lo identifichiamo con i regimi «comunisti».
Ma faccio ironicamente notare che i partiti comunisti che hanno governato l’Urss e i suoi satelliti e che ancora oggi governano Cina e Cuba non hanno mai descritto i loro sistemi come «comunisti». Li hanno definiti piuttosto come «socialisti». Il «comunismo» rimaneva vago, una sorta di distante ideale utopico, accompagnato di solito dall’estinzione dello stato (da raggiungere in un lontano futuro).
La nostra riflessione sul comunismo è dominata da un mito. C’era una volta un’epoca in cui gli esseri umani tenevano tutte le loro cose in comune (nel Giardino dell’Eden, nell’Età dell’oro di Saturno o nel Paleolitico delle bande di caccia e raccolta). Poi arrivò la Caduta dal Paradiso terrestre, con la conseguenza che adesso siamo tormentati dalla divisione del potere e dalla proprietà privata. Il sogno era che prima o poi, col progresso della tecnologia e con la prosperità generalizzata, con la rivoluzione sociale o con la guida del partito, ci saremmo alla fine trovati nella posizione di rimettere a posto le cose, ripristinando la proprietà comune e la gestione comunitaria delle risorse collettive.
Nel corso degli ultimi due secoli, comunisti e anticomunisti hanno discusso sulla plausibilità di questo scenario: per gli uni era una benedizione, per gli altri un incubo. Ma concordavano su come il ragionamento veniva impostato: il comunismo aveva a che fare con la proprietà collettiva, il «comunismo primitivo» era esistito tanto tempo fa e un giorno o l’altro sarebbe potuto tornare. Potremmo chiamarlo «comunismo mitico» – o anche «comunismo epico» – una storia che ci piace raccontare a noi stessi. Dai giorni della Rivoluzione francese, ha ispirato milioni di persone, ma anche arrecato enormi danni all’umanità.
Credo che sia arrivato il momento di ragionare in modo completamente diverso. Infatti il «comunismo» non è una qualche utopia magica né ha a che fare con la proprietà dei mezzi di produzione. È qualcosa che esiste proprio adesso; che esiste, in certo modo, in ogni società umana, sebbene non ci sia mai stata una società in cui tutto fosse organizzato in maniera comunista e sarebbe difficile immaginare come potrebbe sussistere una società del genere. Infatti, per gran parte del nostro tempo, tutti noi agiamo da comunisti. Ma nessuno di noi agisce coerentemente da comunista. Una «società comunista» – nel senso di una società organizzata esclusivamente su quel singolo principio – non potrebbe mai realizzarsi. Ma tutti i sistemi sociali, inclusi quei sistemi economici ispirati al capitalismo, sono sempre stati costruiti su un substrato preesistente di comunismo.
Muoversi a partire dal principio che vuole «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», ci permette di andare oltre la questione della proprietà privata o individuale (che è spesso poco più che una questione di legalità formale), per rivolgere la nostra attenzione a faccende più pratiche e dirette di chi abbia accesso a una certa classe di cose e a quali condizioni. Qualunque sia il principio operativo, anche se abbiamo a che fare con solo due persone che interagiscono, possiamo dire di essere in presenza di una sorta di comunismo. Quasi chiunque stia collaborando a un progetto comune segue questo principio. Qualcuno che sta riparando un tubo dell’acqua rotto dice: «Passami la chiave inglese». Il suo collega, probabilmente, non risponderà mai: «E io che cosa ci guadagno?», anche se stanno lavorando per Exxon Mobil, Burger King o Goldman Sachs. La ragione è semplicemente l’efficienza (in maniera abbastanza ironica, considerando il luogo comune per cui «il comunismo non funziona»): se ti interessa veramente che qualcosa venga fatto, la maniera più efficace per farlo è distribuire i compiti secondo le abilità e dare alle persone ciò di cui hanno bisogno per portarli a termine.
Si potrebbe arrivare a sostenere che uno degli scandali del capitalismo sia il fatto che molte aziende capitaliste al loro interno operino in maniera comunista. Vero, non operano in maniera molto democratica. Molto spesso sono organizzate con catene di comando che funzionano dall’alto verso il basso in stile militare. Ma anche qui c’è un’interessante tensione, perché le catene di comando dall’alto verso il basso non sono particolarmente efficienti: favoriscono la stupidità di chi sta in alto e il risentimento di chi sta in basso. Più grande è il bisogno di improvvisare, più la cooperazione tende a diventare democratica. Si tratta di un principio che gli inventori hanno sempre compreso, che i capitalisti che fondano nuove imprese prima o poi capiscono, e riscoperto di recente dagli ingegneri informatici: non solo con i programmi freeware, di cui tutti parlano, ma anche nell’organizzazione delle loro imprese.Probabilmente è per questo che la gente dopo un grande disastro – un allagamento, un blackout o un collasso economico – tende, nel suo comportamento, a fare ritorno a una forma pratica di comunismo.
Probabilmente è per questo che la gente dopo un grande disastro – un allagamento, un blackout o un collasso economico – tende, nel suo comportamento, a fare ritorno a una forma pratica di comunismo. In queste situazioni, anche solo per un periodo breve, le gerarchie e i mercati sono lussi che nessuno può permettersi. Chiunque sia passato attraverso esperienze del genere può descrivere in maniera specifica in che modo gli stranieri diventino fratelli e sorelle e la società umana sembri rinascere. Tutto questo è importante perché mostra che non stiamo parlando soltanto di cooperazione. Di fatto, il comunismo è il fondamento di ogni forma di socialità umana. È ciò che rende possibile la società.
… questo «comunismo di base», ovvero l’idea che si possa applicare il principio «da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni», di fronte a un bisogno reputato sufficiente e a costi ragionevoli, a patto di non avere a che fare con dei nemici. Ovviamente comunità diverse applicano standard diversi. In grandi e impersonali comunità urbane lo standard non andrà oltre la richiesta di un fiammifero o un’indicazione stradale. Non è granché, ma ci sono possibilità di relazioni sociali più ampie. In piccole e meno impersonali comunità (in particolare quelle non divise in classi sociali) la logica probabilmente si allargherà: per esempio, a volte è praticamente impossibile rifiutare una richiesta non solo di tabacco ma anche di cibo, perfino se arriva da uno straniero (a maggior ragione se la richiesta giunge da qualcuno che appartiene alla comunità).
… La sociologia del comunismo della vita quotidiana è un campo di studio potenzialmente illimitato ma, a causa dei nostri paraocchi ideologici, non siamo mai riusciti a descriverlo, perché incapaci di vederlo.
(Debito. I primi 5000 anni – David Graeber – Ed. Il Saggiatore)
E siccome a me il lungo viaggio raccontato da Graeber è piaciuto leggerlo come una favola, piena di Re, Principi Azzurri e Principesse Addormentate, Orchi e Fate, Folletti e Streghe, giunti alla fine userò la chiusa che sempre ripeteva mia nonna alla fine della favola:
“Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra che io ho detto la mia”
- Fotografia come esclamazione di vitalità - 19/08/2016
- La Thailandia, la zucca e… il peperoncino - 11/08/2016
- Hiroshima, la bomba di Dio - 06/08/2016