I genitori: “la gente deve capire che non siamo responsabili delle sue azioni.” La figlia: “Voglio solamente che il mondo conosca la verità”. La Rete: “Per questa puttana la pena di morte è troppo poco.”
BANGKOK (Asiablog) – La settimana scorsa il signor Surapong Amornpat, 67 anni, e la signora Somchintra Amornpat, 59, si sono recati alla stazione di polizia del quartiere Pravet di Bangkok, la capitale della Thailandia, per chiedere alla polizia di avviare un’indagine nei confronti della propria figlia, Chatwadee Amornpat, 34. L’accusata vive e lavora in Inghilterra da diversi anni, e recentemente ha acquisito cittadinanza britannica. Secondo Surapong e Somchintra, Chatwadee avrebbe ripetutamente insultato il Re della Thailandia, Bhumipol Adyuladej, sui social media Facebook e Youtube. La coppia ha anche fornito alle autorità sette video clip nei quali l’accusata avrebbe mancato di rispetto al re. La lesa maestà, vale a dire la diffamazione di uno dei membri della famiglia reale, nel Regno della Thailandia costituisce un reato punibile con un periodo di detenzione fino a 15 anni a singolo ‘insulto’.
CACCIA ALLE STREGHE – Surapong ha riferito alla stampa thailandese di aver deciso di denunciare la figlia dopo che i suoi video messaggi critici nei confronti della famiglia reale sono stati visualizzati da decine di migliaia di utenti, causando l’indignazione di molti cittadini thailandesi dai sentimenti monarchici. Piccoli gruppi di monarchici hanno organizzato proteste davanti ad ambasciate e consolati a Bangkok e Londra. Altri, palesando la fede cieca e l’intolleranza simbolizzate dalla oramai celeberrima legge thailandese di lesa maestà, una delle leggi contro la libertà di espressione più draconiane al mondo, hanno lanciato una campagna di intimidazione condita con minacce di morte non solo contro Chatwadee, che si è recata alla polizia londinese per chiedere protezione, ma addirittura contro i suoi genitori, che di conseguenza hanno deciso di recarsi alla polizia per denunciare la figlia.
IL PADRE: NOI SIAMO INNOCENTI – L’anziano Surapong, che è stato accusato da diversi monarchici di avere una qualche responsabilità riguardo al comportamento della figlia, ha dichiarato alla stampa thailandese di aver sporto denuncia per dimostrare di non aver nulla a che vedere con il reato da essa commesso.
“Voglio che la gente capisca che se una figlia fa qualcosa di sbagliato non significa che anche i suoi genitori siano colpevoli, perchè noi non giustifichiamo le sue azioni,” ha detto. “Non so che altro fare. L’ho avvertita di smetterla, ma non mi ha dato retta”.
L’ODIO DELLA RETE – Sulla Rete, la passione monarchica generata dal pluridecennale culto della personalità che circonda l’87enne monarca ha raggiunto tristi vette di violento fanatismo. “Per questa puttana la pena di morte è troppo poco”, ha argomentato Siripop su Facebook. “Questa puttana è anche stupida, altrimenti saprebbe che il nostro amato Padre [il re] ha dedicato la sua intera vita al bene di noi sudditi”, ha spiegato Ratchkorn. “Ma è veramente thailandese? I suoi nonni sono nati in Thailandia?”, ha chiesto Chutikanjana, spruzzando sulla discussione quel pizzico di razzismo che spesso si accompagna all’ultra-nazionalismo più becero.
PER LA VERITA’ – La denuncia e le minacce sembrano non aver piegato Chatwadee, che su internet è conosciuta con il nickname di London Rose.
“Voglio solamente che il mondo conosca la verità riguardo alle gravi conseguenze della draconiana legge sulla lesa maestà in Thailandia,” ha detto la donna. “Ho subito lo stalking costante dei monarchici, ma non ho paura. Voglio che si sappia che se verrò ferita o uccisa sarà per opera di qualche monarchico o di qualche loro agente. Ma preferisco morire lottando per la libertà e la democrazia del mio popolo che piegarmi alla violenza. Spero un giorno di vedere liberati tutti i prigionieri politici rinchiusi in galera per via della legge sulla lesa maestà.”
LESA MAESTA’ – La legge sulla lesa maestà, ovvero l’articolo 112 del codice penale, proibisce “ogni azione o parola che diffama, insulta o minaccia il Re, la Regina, l’erede al trono o il reggente”. La pena varia da tre a 15 anni, da moltiplicare per ogni singolo atto di lesa maestà. Il reato di lesa maestà è un crimine punibile dalla legge anche quando commesso fuori dal Regno della Thailandia, e si applica sia ai cittadini thailandesi che agli stranieri. Nel novembre del 2013 la Corte Suprema ha stabilito che il termine “re” nell’articolo 112 si applica anche ai precedenti otto sovrani della dinastia regnante. Secondo il Prof. David Streckfuss, la legge sulla lesa maestà è in sostanza una variante della legge sulla blasfemia, dove il reato punito non è tanto l’insulto ad una determinata divinità, quanto il ferimento dei sentimenti della comunità dei credenti.
DIRITTI NEGATI – Nel contesto della Thailandia del Ventunesimo secolo, la prima vittima di questa legge è il diritto del popolo thailandese ad essere informato e a formarsi ed esprimere liberamente le proprie opinioni. Questo diritto, teoricamente riconosciuto dalla Costituzione del Regno della Thailandia, viene impedito di fatto dalla legge sulla lesa maestà, che costituisce uno dei fattori principali per i quali il Regno è ancor oggi nei gradini più bassi delle classifiche internazionali per i diritti umani e la libertà di stampa. La legge, anche per via del modo estremo con cui viene applicata, finisce per violare ogni standard internazionalmente accettato, a partire dall’Articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani:
«Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.»
Secondo Freedom House, la Thailandia è una Paese “parzialmente libero” con una stampa “non libera”.
ARMA POLITICA –Denunce, processi e condanne per lesa maestà si sono moltiplicati negli ultimi anni, specialmente dopo il colpo di stato militare del 2006. In quell’occasione i golpisti, che hanno rimosso un primo ministro controverso ma popolare ed eletto democraticamente in libere elezioni, hanno addobbato carri armati e canne dei fucili con simboli monarchici. Da allora, chi critica questa legge draconiana argomenta che essa viene di fatto utilizzata come un’arma squisitamente politica contro l’opposizione al regime monarchico-militare di Bangkok, sottolineando come la maggioranza degli accusati siano attivisti per la democrazia e per i diritti umani.
CHE FARE? – Per i lettori italiani, rinnoviamo l’invito ad utilizzare la vostra libertà per difendere quella altrui mandando una lettera o una e-mail all’Ambasciata del Regno della Thailandia a Roma chiedendo il rispetto degli impegni internazionali sottoscritti da Bangkok e l’immediata liberazione dei prigionieri politici in Thailandia.
Questi sono i contatti:
Royal Thai Embassy
Via Nomentana 132, 00162 Roma
Fax. +39(06) 8622 0529
Email: thai.em.rome@wind.it.net
Grazie.