La Corte di Giustizia Internazionale ha recentemente emesso una sentenza inapellabile, in relazione alla contesa che vede opposti da decenni i due paesi per quanto riguarda la sovranità sulla zona del tempio di Preah Vihear, situato a ridosso della linea di confine. Presieduta da un ex-diplomatico slovacco la corte, all’unanimità, ha decretato che il tempio di origine induista, rivendicato da due paesi buddhisti, appartiene alla Cambogia, ma la sentenza tuttavia non sembra essere una risoluzione definitiva dell’annosa questione.
L’origine della vicenda risale al 1962, quando una sentenza internazionale delle Nazioni Unite assegnò Preah Vihear alla Cambogia, ma lasciando insoluta la questione dell’area circostante (circa 5km quadrati), e gettando le basi per una serie di accuse reciproche tra i due contendenti. Va detto, tuttavia, che la Cambogia, quando nel 1959 ricorse all’ONU, chiese la verifica della sovranità solo relativamente al tempio, ma non del territorio rimanente. Da parte thailandese la sentenza del 1962 non venne mai accettata, essendo ritenuta basata su una mappa redatta dai francesi in epoca coloniale, nel 1907, favorevole alla Cambogia nonostante degli accordi precedenti che sarebbero stati presi tra autorità coloniali e goveno siamese.
La vicenda uscì dalle aule dai tribunali, coinvolgendo la stessa popolazione di Preah Vihear quando nel 2011 tra Thailandia e Cambogia scoppiò un breve conflitto, che fece 28 vittime. E proprio a seguito di quel conflitto le autorità cambogiane presentarono un nuovo appello. Nonostante la recente sentenza abbia visto tutti i diciassette giudici, compresi quelli indicati dalla Thailandia, concordi nel dare ragione alla Cambogia, non si è che ribadito quanto stabilito nel 1962, ordinando alle truppe thailandesi di lasciare l’area e rimandando l’accordo sul territorio contestato ad un accordo tra le parti.
La popolazione stanziata nell’area non ha accolto la sentenza con troppo entusiasmo, nonostante molti degli abitanti abbiano potuto fare ritorno alle case da dove erano stati evacuati, allestendo invece dei rifugi in previsione di un attacco thailandese. E nemmeno le massime autorità dei due paesi non sembrano far molto conto della sentenza della Corte di Giustizia, proclamando di essere pronti a collaborare per raggiungere un accordo pacifico, ma senza tuttavia dichiarare di essere pronti a fare un passo indientro nelle loro richieste territoriali. Gli osservatori internazionali sono preoccupati soprattutto riguardo a possibili manifestazioni di piazza dei nazionalisti thailandesi.
Mentre l’accesso ai giornalisti è stato proibito, durante tutta la durata della crisi nessuna limitazione è stata presa nei confronti dei turisti. A proposito si può notare come il tempio, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, sia facilmente raggiungibile dalla Thailandia mentre il percorso dalla Cambogia sia decisamente più tortuoso. Resta ora da vedere come e se le parti troveranno un accordo, in una regione già alle prese con una massiccia deforestazione dovuta alla ricerca di nuovi appezzamenti da coltivare, nonché allo sfruttamento intensivo di concessioni da parte di compagnie estere, in gran parte malesi, per la produzione di caucciù.
Se sul remoto tempio montano di Preah Vihear le autorità cambogiane hanno rilasciato dichiarazioni su dichiarazioni, a proposito del disboscamento – quantificato da uno studio americano in una perdita di più del 7% delle foreste cambogiane negli ultimi dodici anni – e degli affari gravitanti intorno agli investimenti esteri il silenzio resta assoluto, con buona pace di una popolazione che non si aspetta nulla di buono, a discapito delle sentenze della Corte di Giustizia dell’ONU.
Fonte immagine: Wikicommons
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