Commentare un fatto di cronaca a caldo, soprattutto se accade dall’altra parte del mondo, non è mai cosa semplice. I rischi sono di cadere nella superficialità o nel baratro del complottismo, ma quanto accaduto a Pechino, che ormai le stesse autorità cinesi ritengono essere stato un attentato, merita alcune riflessioni. La Cina sembra infatti trovarsi in un momento molto importante della sua storia, ed il prossimo congresso del Comitato centrale del Parito comunista, previsto a novembre, potrebbe rappresentare una svolta.
Le forze di polizia sono alla ricerca di due sospettati complici di etnia uigura, e proprio verso la minoranza musulmana dell’Ovest della Cina si rivolgono le autorità nel cercare l’origine di quello che di fatto è il primo attentato suicida nella storia cinese, perlomeno in quella recente. A bordo dell’auto in fiamme, la cui targa riconduce allo Xinjiang, sono stati ritrovati i cadaveri di tre uomini ritenuti appartenere alla citata etnia uigura, una minoranza da sempre in conflitto con il potere centrale di Pechino. Sebbene in passato vi siano stati episodi di attentati terroristici provenienti da quella regione, anche bombe, questa è la prima volta in cui si arriva al suicidio degli attentatori.
Subito dopo l’esplosione le autorità cinesi hanno censurato le immagini che ritraevano il luogo dove l’auto ha investito la folla, uccidendo due turisti e prendendo poi fuoco. Luogo non senza simbologia dato che si tratta della stessa Piazza Tienanmen, teatro della repressione degli studenti del 1989 sotto lo sguardo di Mao, il cui ritratto troneggia all’ingresso della Città Proibita. Diversi media cinesi hanno accusato gli occidentali di fomentare la violenza nello Xinjiang, dando credito alle rivendicazioni degli uiguri; è interessante notare come un quotidiano governativo, il Global Times, abbia, nel momento in cui scriviamo, espressamente collegato l’attentato allo Xinjiang solo nella sua versione inglese, non in quella cinese.
L’Ovest della Cina è una regione dove le tensioni crescono esponenzialmente con il suo essere strategicamente fondamentale, per le politiche di Pechino. Lo Xinjiang nei piani del governo cinese deve tornare ad essere, come ai tempi della Via della Seta, la porta attraverso cui commerciare con l’Occidente. L’emigrazione cinese, di etnia Han, sta sovrastando la popolazione locale, e le autorità accusano gli uiguri di velleità indipendentiste, volte alla creazione di un Turkestan Orientale autonomo. Negli ultimi mesi la polizia ha arrestato nella regione 140 persone accusate di terrorismo, e gli scontri si succedono quotidianamente, tra cui il più grave ad agosto, quando vennero uccisi 22 uiguri.
Il possibile diffondersi di tattiche suicide tra gli oppositori musulmani del governo cinese, rappresenta un pericolo enorme per Pechino, avvicinando sinistramente lo Xinjiang al Pakistan ed all’Afghanistan, e qui bisognerebbe chiedersi se sulla Pamir Highway insieme alle ideologie radicali non siano transitati anche membri dell’ISI, i famigerati servizi segreti pakistani. Ma senza entrare nel vero e proprio caos che regna in Pakistan, al di là della catena del Karakorum, bisogna comunque dire che l’attentato di Piazza Tienanmen potrebbe essere molto utile per le autorità cinesi, alle prese con una situazione interna sempre meno gestibile, dai divari sociali sempre più ampi. La Cina deve cambiare rotta, questo affermano le autorità, ma nessuno indica quale direzione prendere.
Pechino ha sempre preso parte con convinzione alle campagne internazionali di lotta al terrorismo. Dopo questo attentato la Cina potrebbe spingere sull’accelleratore della coesione interna contro il terrore, continuando sulla via del controllo dei mezzi di comunicazione, rete inclusa, e della repressione delle voci contrarie. Con la motivazione della lotta al terrorismo si potrebbe anche tentare di ridurre le diseguaglianze sociali, tagliando i privilegi ad una classe di nuovi ricchi sempre più problematica per il potere centrale. Ma facendo questo la Cina rischia di ripercorrere gli stessi errori fatti dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001; Stati Uniti che ora iniziano a pagare anche le conseguenze di quella battaglia intrapresa in nome dell’alleanze contro un nemico comune.
La Cina, nonostante le sue visioni geopolitiche multipolari, sembra destinata a diventare il successore degli USA a livello mondiale, e l’attentato di Pechino non fa che sottolineare il parallelismo. Ma se gli americani hanno “trovato” un nemico almeno formalmente al di fuori dei propri confini, la situazione cinese da questo punto di vista ha molte più somiglianze con quella russa, dove Mosca è alle prese con un Caucaso in fiamme. Pechino in nome dell’armonia, categoria fondante nell’ideologia cinese, ha un preciso interesse a sottolineare le influenze straniere nella deriva terrorista dello Xinjiang, ma la conseguenza di ciò è il rischio di una chiusura del paese – per risolvere le questioni interne non ci devono essere testimoni – già manifestata in parte nella recente revisione della politica dei visti.
In conclusione la Cina è sempre più alle prese con delle scelte fondamentali per il suo futuro, e l’attentato di Pechino, da chiunque sia stato progettato, non fa che spingere una classe dirigente di fronte a scelte che non sembra saper prendere, in attesa del prossimo, ed a questo punto davvero importante, congresso del partito.
P.S. nel mentre pubblichiamo l’articolo la polizia cinese ha arrestato cinque iuguri ritenuti coinvolti nell’attentato, ed altri tre sono dichiarati ufficialmente ricercati.
Fonte foto Wikimedia
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