Quello che sta accadendo in Birmania, o se si vuole Myanmar, è a prima vista decisamente contradditorio. La cronaca ci parla di un paese pervaso dagli odi religiosi ed interetnici, con veri e propri pogrom contro la minoranza musulmana, mentre l’economia ci descrive un paese in crescita, in cui alle riforme si accompagna uno sviluppo economico tale da ritenerlo il più quotato paese emergente del sud-est asiatico. Ma cosa accade realmente in Birmania?
Osservando attentamente le dinamiche alla base degli scoppi di violenza che insanguinano il paese, gli analisti si pongono il dubbio se l’origine sia schiettamente popolare, chiedendosi invece se non vi sia una regia occulta a manovrare le folle buddhiste. La tesi “complottista” ha come punto di forza la velocità con cui le violenze si propagano e l’avvistamento di gruppi armati a bordo di camion. Tuttavia a contraddire tale tesi vi è la futilità all’origine di molti tra gli scontri, sia che si tratti di banali diverbi, come avvenuto a Thandwe tra un taxista buddhista ed un militante di un partito musulmano, o addirittura uno scontro tra una bambina musulmana in bicicletta ed un monaco buddhista, fatto accaduto nella zona di Oakkan.
Altro fattore da non sottovalutare è il fatto che ad essere colpita non è solo la minoranza musulmana dei Rohingya, una delle etnie più maltrattate del mondo, ma ormai l’intera popolozione islamica birmana. Quello che probabilmente sta accadendo è che qualcuno ha interesse nell’alimentare il clima di violenza, diffondendo la paura nella maggioranza buddhista di Birmania, paura che si autoalimenta, quasi irrazionalmente, come dimostrato dall’appoggio dato all’esercito anche da parti del territorio storicamente ostili al potere centrale.
Ma a chi potrebbe giovare il fatto che i musulmani in Birmania stiano subendo un processo di demonizzazione? Sicuramente agli ultranazionalisti come il monaco buddhista Wirathu, che spinge all’estremo il senso di coesione nazionale rappresentato dal buddhismo, essendo stati nella storia recente della Birmania proprio i monaci i più importanti difensori del popolo dalle ingiustizie del potere, come in occasione della Rivoluzione Zafferano del 2007. Ma ad essere in gioco è l’intero processo democratico, con l’esercito ancora ben presente negli apparati di potere, nonostante i cambiamenti avviati dall’approvazione della Costituzione del 2008. E proprio l’esercito potrebbe usare la paura serpeggiante tra la popolazione per continuare a giocare un importante ruolo politico.
La scelta di fronte a cui si trova la Birmania è come affrontare lo sviluppo democratico del paese, ossia se arrivare alle elezioni del 2015 con regole chiare e condivise, oppure cercare di manipolare le tornate elettorali in funzione di interessi personali. Il presidente birmano Thein Sein, ex generale, arrivato al potere nel 2011 proprio grazie ai militari, è poi entrato in collisione con questi soprattutto per quanto riguarda l’indirizzo da dare alle riforme. Sein si è rivolto all’Occidente, applicando alla Birmania ricette liberoscambiste come la liberalizzazione dei prezzi di mercato e la privatizzazione delle aziende di stato, il che ha rappresentato per la popolazione un vero e proprio sconvolgimento della vita quotidiana.
Ma la Birmania deve gran parte del suo sviluppo agli investimenti cinesi, esportando in Cina prodotti a basso prezzo, ed evitando così l’isolamento internazionale grazie all’ombrello protettivo di Pechino. Nonostante i rapporti tra i due paesi abbiano avuto qualche frizione, come gli scontri armati del 2012 che dalla regione birmana di Kachin sono sconfinati in Cina, per i cinesi la Birmania è un partner economicamente molto interessante. A dimostrazione di questo vi è la realizzazione di un gasdotto per la quale Yangoon guadagnerà, fornendo gas e greggio alla Cina, una cifra annua di 900 milioni di dollari per un periodo di trent’anni. Significativamente il premier cinese, Li Keqiang, dopo un incontro con Thein Sein, ha di recente dichiarato che i legami con la Birmania resteranno forti, “qualunque strada la Birmania decida di percorrere”.
Concludendo le violenze religiose e la crescita economica sono due facce della stessa medaglia, due sintomi di un processo in corso, che la classe dirigente birmana deve gestire scegliendo in che direzione proseguire, attenuando il più possibile lo shock dovuto ad un fenomeno così delicato come la costruzione di una democrazia, la cui nascita tuttavia non è mai scontata.
Fonte immagine: Flickr
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