Il manifesto nell’immagine in alto risale all’epoca del primo Governo di Plaek_Pibulsonggram (1938-1944), meglio noto come Phibun. Nel manifesto si definisce quale sia il modo sconveniente di vestire (gli indumenti tradizionali siamesi, sulla sinistra) e si propone il più appropriato abito civile (sulla destra) visibilmente occidentalizzato.
“I paesi detti sottosviluppati (…) tentano di compiere secoli di esperienza sociale in una sola generazione e di passare con un sol balzo dal carretto all’acciaieria. La passione per una modernizzazione pianificata pone a queste nazioni un problema economico (…) arduo: produrre il più possibile e consumare il meno possibile (…) Un altro problema si pone sul piano sociale (…) quello di trasformare i modi di lavoro e di vita radicati da un’abitudine di secoli. In breve, ciò di cui queste nazioni hanno bisogno è una disciplina sociale che trasformi società tradizionali (…) in stati industriali relativamente moderni.” (Le travail e la guerre – Pierre Naville)
“E quali sono i gruppi dirigenti più idonei a instaurare questa disciplina sociale? Saranno quelli che ne hanno già l’esperienza, e cioè i militari. L’esercito si fonda sulla disciplina, e inoltre solo dei militari saranno in grado di imporsi anche ad interessi conservatori.” (I colonnelli della guerra rivoluzionaria – Giorgio Galli – Ed. Il mulino)
Nel 1932 il cosiddetto “Partito del Popolo” prese il potere con la cosiddetta “Rivoluzione del Siam”. Il Partito del Popolo era formato da un misto di giovani militari e burocrati venuti in contatto con le idee democratiche nei paesi occidentali in cui avevano studiato. Una volta preso il potere, abolirono la Monarchia Assoluta ed introdussero la prima Costituzione thailandese, consegnando, di fatto, il potere in mano alla fazione militare del partito. I diversi dittatori militari che si sono succeduti nel corso degli anni cercarono un’accelerazione nella modernizzazione di quella, dopo l’abolizione del vecchio nome di Regno del Siam, era divenuta Regno della Thailandia
E la democrazia?
Un optional prevalentemente lessicale, come l’aggettivazione “democratica” di tante “repubbliche popolari” che di democratico hanno o avevano ben poco. Ma questo, di certo, non lo scopro io.
Dopo gli iniziali bagliori democratici del 1946 e 1947 che aprono brevissime parentesi nel dominio della destra sostenuta dai militari, bisogna attendere le rivolte popolari del 1973, e le sue repressioni, per vedere all’opera, seppur brevissimamente, un governo non dominato dalla destra militare.
Negli anni tra queste parentisi democratiche – parentesi che si aprono, guarda caso, dopo guerre perse, la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra del Vietnam, in cui la Thailandia si era schierata con gli sconfitti – l’opera di modernizzazione, guidata dalle dittature militari, trova una accelerazione soprattutto negli anni Sessanta del secolo scorso grazie alla friendly colonisation statunitense che, con consistenti finanziamenti economici, da un lato si garantisce l’utilizzo di un’area strategica per la guerra in Vietnam e dall’altro permette alla dittatura militare di intraprendere una serrata lotta al comunismo thailandese, obiettivo questo di interesse bilaterale.
(…) le fonti ufficiali concordano ormai sull’esistenza di una insurrezione comunista, in forme e con alleanze diverse, su tre fronti: verso il confine sud occidentale con la Malaysia, dove operano seicento guerriglieri malesi uniti a un paio di centinaia di reclute thailandesi dei villaggi. (…) sulle montagne all’estremo nord del paese, e a nord-est, dove il fiume Mekong segna fra Thailandia e Laos una frontiera pressoché indefinibile. (…) Ma dove la guerriglia è veramente una cosa seria, anche perché esistono le premesse umane, economiche e sociali di una situazione prerivoluzionaria secondo gli schemi classici, è nella fascia di nord-est che si estende lungo il fiume Mekong e ai confini col Laos e la Cambogia. Qui vivono, in province battute dai monsoni, ciclicamente flagellate da alluvioni e frane, e in giungle, paludi, altipiani aspri e poco fertili, circa dieci milioni di contadini, un terzo dell’intera popolazione del paese. (…) Qui, dove per antica tradizione di secoli, il funzionario governativo sembra presentarsi solo per reprimere o per riscuotere tributi o giovani per la leva, gli attivisti cinesi hanno buon gioco nel predicare il miraggio della formula di Lin Piao secondo cui la campagna si arma e divora la città ricca e corrotta. (…) Ma soprattutto buona parte dei fondi viene spesa per eliminare fin dove è possibile nelle popolazioni povere e sottosviluppate le cause remote dei quel malcontento sul quale il verbo rivoluzionario ha avuto finora buon gioco. Il Programma di sviluppo rurale accelerato, in gran parte finanziato con miliardi americani, mira da un lato a controbattere la guerriglia psicologica comunista (..) dall’altro a favorire un reale progresso del paese. (Rapporto dall’Asia – Franco Nencini – 1970)
Per rivedere qualche piccolo passo in avanti sotto l’aspetto della democrazia bisognerà attendere gli anni Novanta, ed il primo decennio di questo secolo, caratterizzati da tensioni, represse con la forza, tra popolo e governi filo-militari.
I protagonisti sono le nuove classi figlie del travolgente sviluppo economico di cui ha beneficiato la Thailandia e che ha definitivamente sostituito, nell’immaginario collettivo, la difficoltosa idea di libertà sociale con la facile e consumistica idea di libertà di mercato.
In tutto questo susseguirsi di eventi l’ala militare, mano armata delle classi elitarie thailandesi, non è mai veramente stata sconfitta. Si ritira per brevi periodi nelle sue caserme da dove osserva quel che accade, fa raffreddare la situazione e riorganizza il mantenimento del potere che esercita (o consente) dal 1932 sino ai nostri giorni.
E la Monarchia? Elevata ad un artificioso stato sovrannaturale, gioca al ruolo di “rappresentante del popolo” ma garantisce esclusivamente i privilegi di pochi e il perseverare del sistema.
E il Popolo? Abbandonato ai capricci del potere: infrastrutture fatiscenti, istruzione carente, inquinamento ambientale e gravi piaghe sociali quali criminalità, corruzione e impunità diffuse.
Il cittadino, o per meglio dire suddito, thailandese, viene cresciuto nel rispetto acritico delle gerarchie sociali, in modo che rimanga al ‘suo posto’, religiosamente cosciente della sua posizione nella scala sociale, alla quale appartiene da sempre, e dalla quale crede di potersi elevare, oggi, solo diventando una star della Tv o, extrema ratio molto praticata, vincere alla Lotteria Nazionale.
E forse per cercare di capire certi “perché”, cioè per comprendere le ragioni di certi “comportamenti sociali”, torna utile leggere l’opinione di Roberto Scarpinato sulle radici socioculturali dell’Italia di oggi:
“Purtroppo siamo arrivati tardi all’appuntamento con la storia. Nel XIX secolo quando in Europa il feudalesimo era solo un relitto storico ampiamente superato dalle rivoluzioni borghesi che avevano mandato in frantumi il vecchio ordine e le sue strutture culturali, in buona parte dell’Italia il feudalesimo era ancora una realtà vivente. (…) I viaggiatori europei restavano incantati dalle rovine romane e nello stesso tempo erano esterrefatti perché sembrava di essere proiettati dall’Europa civile in pieno Medioevo. (…) L’unificazione dell’Italia (…) proietta parte dell’Italia in un universo culturale improprio (…) Dai principi ai baroni, alla modesta borghesia, al popolo minuto, tutti si trovano a misurarsi con una grammatica (…) che costituisce come una sorta di nuova lingua straniera incomprensibile. (…) Si tratta di una <lingua> che costituisce il frutto di un’altra storia, che non diviene una storia condivisa, ma una storia imposta e quindi largamente rigettata. Il gattopardismo per cui tutto cambia perché nulla cambi, è anche il frutto di questa dinamica storica.(…) I nuovi valori, frutto di un’altra storia, si innestano nel tronco dei vecchi valori e così invece dell’olivo nasce l’olivastro. Un ibridazione bastarda che in parte modernizza l’Italia tardo feudale, ma in parte feudalizza il resto del Paese. (…) Tutta la ricchezza era concentrata in un ristretto numero di famiglie; al posto della cultura dei diritti esisteva quella dell’elemosina e del favore (…) Società di sudditi, di padrini e padroni con piccolo borghesie e corporazioni artigiane al loro servizio. (…) La violenza e l’arbitrio erano uno strumento normale di risoluzione delle controversie all’interno del ristretto numero degli equipotenti – coloro che occupavano il vertice della piramide sociale – e una pratica di vita nei confronti degli impotenti che stavano nei gradini più bassi. L’abitudine alla obbedienza acritica al potente, il servilismo, l’identificazione dell’ordine esistente con quello naturale e divino e quindi la rassegnazione fatalistica erano la normalità. (Il ritorno del Principe – Saverio Lodato/Roberto Scarpinato – Ed. Chiarelettere)
Certo, con tutte le differenze del caso ma comunque con un comune sottofondo, quella del neofeudalesimo suona quantomeno come un campanello di allarme, un segnale di come sia la coscienza sociale dei cittadini, (volutamente) incompleta e quindi impreparata ad abbracciare a pieno ideali di libertà, giustizia, eguaglianza, la chiave di volta per poter cambiare veramente l’attuale stato dei fatti.
“I sistemi democratici procedono diversamente, perché devono controllare non solo ciò che il popolo fa, ma anche quello che pensa. Lo Stato non è in grado di garantire l’obbedienza con la forza e il pensiero può portare all’azione, perciò la minaccia all’ordine deve essere sradicata alla fonte. È quindi necessario creare una cornice che delimiti un pensiero accettabile, racchiuso entro i principi della religione di Stato.” (Noam Chomsky)
Prosegue il mio viaggio in Thailandia, un viaggio pieno di domande non solo problematiche ma che rifiutano anche risposte semplici.
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