La Cassia fistula (in thailandese ราชพฤกษ์ – ratchaphruek – ma ha altri nomi locali), conosciuto col nome inglese di golden shower tree (albero della pioggia dorata), è il fiore ed albero nazionale della Thailandia.
Tra marzo e maggio gli alberi di ratchaphruek perdono quasi completamente le foglie ed i suoi rami si coprono di una imponente fioritura gialla. Credo sia stata una scelta molto azzeccata quella fatta una cinquantina di anni addietro dagli amministratori thailandesi, perché i fiori di cassia fistula sbocciano durante il capodanno thailandese, che cade a metà aprile, e vengono ampiamente utilizzati per addobbi di carri cerimoniali durante le celebrazioni religiose. Inoltre, il colore giallo è il colore associato all’attuale Monarca, Re Rama IX.
Fiore ed albero nazionali si sommano a tutti gli altri simboli che vanno a comporre l’immagine di una Nazione che vuole, come tutte, crearsi un passato per poter avere un futuro: “Il nazionalismo non è il risveglio delle nazioni all’auto coscienza; esso inventa nazioni là dove esse non esistono”. (Thought and Change – Ernest Gellner).
“Gellner usa il termine inventare che però finisce con l’implicare che la comunità inventata sia falsa, mentre per Benedict Anderson le comunità vanno distinte non in base alla loro falsità/genuinità, ma dallo stile in cui sono immaginate. L’utilità di questa mossa è subito chiara al lettore di Comunità immaginate: essa consente ad Anderson di classificare il nazionalismo in diversi tipi.” (Chissà se capiranno di Marco d’Eramo – presentazione all’edizione italiana di Comunità immaginate – Benedict Anderson -Ed.Manifesto libri).
Per Anderson, il nazionalismo thailandese, che nella sua forma moderna ha gettato le sue prime basi durante il regno di Chulalongkorn (Rama V), appartiene alla categoria degli “ufficial-nazionalismi” che, nel loro complesso, “possono essere visti come mezzi per combinare la naturalizzazione e il mantenimento del potere dinastico”. Scrive Anderson:
“(…) il lungo regno di Chulalongkorn (Rama V, 1868-1910) fu caratterizzato da una strenua difesa del suo stato contro l’espansionismo occidentale, (…) Soffocato tra Indocina francese e Birmania e Malesia britanniche, il sovrano del Siam si dedicò a un’accorta politica di manipolazione, più che a fornirsi di una potente macchina da guerra. (Un ministero della guerra non fu creato fino al 1894). Le sue forze armate ricordavano molto quelle dell’Europa del ‘700, ed erano costituite da una variegata schiera di mercenari e tributari vietnamiti, khmer, laotiani, malesi e cinesi. Ne venne fatto molto per imporre un ufficial-nazionalismo attraverso un moderno sistema scolastico. L’istruzione elementare non divenne obbligatoria se non dieci anni dopo la sua morte, e la prima università del paese non fu aperta se non nel 1917,(…) Eppure Chulalongkorn si vedeva come un modernizzatore. I suoi modelli principali non erano però né il Regno Unito né la Germania, ma i beamtenstaaten coloniali delle Indie orientali olandesi, la Malesia britannica e il Raj. Imitare questi modelli significò razionalizzare e centralizzare il governo reale, eliminare i tradizionali staterelli tributari vagamente coloniali, e promuovere uno sviluppo economico su linee vagamente coloniali. L’esempio più evidente – che a modo suo presagisce l’Arabia Saudita contemporanea – fu il suo incoraggiamento ad un’immigrazione di massa di giovani e scapoli maschi stranieri, per costituire la forza lavoro disorientata e politicamente impotente necessaria per costruire porti, ferrovie, canali ed espandere l’agricoltura commerciale. (…) questa politica non creò al sovrano né alcuno scrupolo personale, né alcuna difficoltà politica (…) una tale politica era adatta a breve termine per uno stato dinastico come il Siam, perché creava una classe operaia impotente, <esterna> alla società thailandese e lasciava questa società largamente <indisturbata>”.
E ancora:
“Wachirawat, suo figlio e successore (Rama VI, 1910-1925), dovette raccogliere i cocci, e ispirarsi questa volta ai regnanti europei. Anche se (e poiché) educato nella tarda Inghilterra vittoriana, si definì <il primo nazionalista> del suo paese. Bersaglio del suo nazionalismo non fu però né il Regno unito, che controllava il 90% del commercio del Siam, né la Francia, che aveva appena occupato le zone più orientali dell’antico regno: erano invece i cinesi che suo padre aveva da poco così superficialmente accolto. Lo stile della sua campagna anti-cinese è suggerito dai titoli di due dei suoi più famosi opuscoli: Gli ebrei d’Oriente (1914) e Bastoni nelle nostre precedente ruote (1915). Perché questo cambiamento? (…) Nel giugno precedente (1910), la polizia dovette intervenire per reprimere uno sciopero generale organizzato dai cinesi di Bangkok, mercanti (figli rampanti dei primi immigrati). (…) Il Cinese cominciò ad apparire il nunzio di un repubblicanesimo popolare che minacciava principi dinastici. (…) Ecco pertanto un ottimo esempio di ufficial-nazionalismo, una strategia anticipatrice adottata da gruppi dominanti che temono di essere emarginati o esclusi da un’emergente comunità immaginata nazionale. Superfluo sottolineare che Wachirawut cominciò a spingere su tutti i tasti dell’ufficial -nazionalismo: istruzione elementare obbligatoria controllata dallo stato, propaganda di regime, revisione della storia scritta, militarismo (in questo caso più la sua apparenza che la sua sostanza), e continue affermazioni dell’identità dinastica e nazionale. (Egli coniò anche lo slogan Chat, Sasana, Kasat (Nazione, Religione, Monarca) che è stato il ritornello dei regimi di destra del Siam” negli ultimi ottanta anni. (Brani tratti da una sintesi del suo Studies of the Thai State fatta da Benedict Anderson in Comunità Immaginate).
Dalla prefazione alla seconda edizione di Comunità immaginate, di Benedict Anderson (ora disponibile anche in lingua thailandese):
“Il fine di questo libro è di offrire suggerimenti per un’interpretazione più soddisfacente dell’anomalia del nazionalismo. Credo che su questo argomento sia la teoria marxista, sia quella liberale si sino intristite in un tentativo tardo tolemaico di salvare i fenomeni: e che sia urgente riorientare la prospettiva in uno spirito, per così dire copernicano. Il mio punto di partenza è che i concetti di nazionalità, di nazionalismo o di nazion-ità – termine che si potrebbe preferire per i suoi molteplici significati – sono manufatti culturali di un tipo particolare. Per poterli meglio interpretare è necessario considerare accuratamente come essi siano nati storicamente, in che modo il loro significato sia cambiato nel tempo, e perché oggi scatenino una legittimità così profondamente emotiva.”
In Thailandia l’abolizione della Monarchia Assoluta del 1932, e l’introduzione (e sospensione o modifica) di una Costituzione, ha generato decenni di incertezza con cambiamenti di direzione a volte drammatici ma sempre gestiti, in conclusione, dal vecchio apparato aristocratico-militare-burocratico ereditato dalla monarchia assoluta.
Come abbiamo argomentato in un post precedente:
“Nel libro “The Politics of Despotic Paternalism” (1979), Thak Chalermtiarana ha scritto che Sarit Thanarat (al governo dal 1959 al 1963) promosse la figura del Re e l’istituzione monarchica per legittimarsi agli occhi della popolazione, delle elite capitaliste e conservatrici e degli Stati Uniti, in quanto altrimenti non avrebbe avuto alcuna credenziale per governare il paese. (…) la colossale campagna di propaganda che ha portato al progressivo aumento dell’importanza della monarchia in Thailandia dopo che negli anni ’30 aveva rischiato di scomparire del tutto sarebbe da collegare al bisogno di avere un’ideologia da contrapporre a quella Comunista (che all’epoca appariva in inarrestabile ascesa) per proteggere lo status quo e continuare a sviluppare il capitalismo thailandese.(…) Le classi dominanti – capitalisti, esercito, aristocratici – avevano bisogno di un simbolo e di una ideologia che apparissero non stranieri, non americani. La monarchia venne scelta per assumere questo ruolo. (…) non è necessariamente il Palazzo a dirigere queste forze elitarie (…) sono probabilmente i ricchi, gli armati e i privilegiati che utilizzano l’istituzione monarchica per proteggere i loro interessi e (…) impedire lo sviluppo di un vero regime democratico. (…) una relazione di interdipendenza, dove il Palazzo e il complesso militare e capitalista si sostengono a vicenda.”
D’altra parte anche in Italia la fede monarchica era ancora solida nel 1946 ed il successo dei repubblicani al Referendum_istituzionale per scegliere tra Monarchia e Repubblica avvenne con scarto minimo. E, detto per inciso, la totale assenza della monarchia – pur trattandosi di un elemento molto importante dell’unità stessa – nei recenti festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia forse è il nostro esempio più recente di come la “storia” che ci raccontano non sempre è “tutta la storia,” nonchè un’occasione persa per rivisitare e riflettere sul passato, persino quello “più brutto” (monarchia e fascismo).
Quindi non sorprende la scelta fatta dalle forze elitarie thailandesi di “affidarsi al simbolo della monarchia”: la radice storica era ancora viva nella popolazione che, d’altra parte, non conosceva (e non conosce) in egual misura la democrazia. Inoltre, gli apparati statali erano ancora in buona parte emanazioni delle classi storicamente dominanti, aristocratici e militari in testa, che da sempre, avendone i mezzi economici, “studiavano la situazione” in giro per il mondo.
Scrive Noel Battye in The Military, Government and Society in Siam:
“(…) le visite del giovane monarca a Batavia e a Singapore nel 1870 e in India nel 1872 servissero a, con le parole di Chukalongkorn, «selezionare modelli non pericolosi» (…)
Rama V (Chulalongkorn) inviò i suoi figli e nipoti alle corti di San Pietroburgo, Londra e Berlino per imparare la complessità del modello mondiale. Nel 1887 istituì il principio della successione al primogenito riconosciuto legalmente, portando quindi il Siam «in linea con le civilizzate monarchie d’Europa»”
Ed ai re e principi giramondo si erano aggiunti, nel tempo, giovani di belle speranze che avevano studiato all’estero, molti dei quali erano figli di una borghesia arricchita col commercio che si era aggiunta agli aristocratici ed ai militari. Nel 1932 emersero da questa schiera due personaggi che, nel bene e nel male, segneranno il futuro della vita politica thailandese. Erano il militare trentacinquenne Plaek Phibunsongkhram (แปลก พิบูล สงคราม), conosciuto anche come Phibun Songkhram o più semplicemente Phibun, e l’avvocato trentaduenne Pridi Phanomyong (ปรีดี พนมยงค์ ).
Il nazionalismo, istituzionalizzato sul finire della Monarchia assoluta, viene riproposto dal dittatore Phibun Songkhram (con la provvisoria esclusione dell’immagine del Monarca) e definitivamente consolidato, alla fine degli anni Cinquanta, da un altro dittatore, Sarit Thanarat. Un percorso che snodandosi ininterrotto negli ultimi 100 anni della vita thailandese appare oggi come un tatuaggio nel sentire di tanti thailandesi: ชาติ ศาสนา พระมหากษัตริย์ (Nazione, Religione, Re).
Prosegue il mio viaggio in Thailandia, ma non solo, e forse vi chiederete (nuovamente – per chi ha letto un precedente post) il perché di tutto questo. Troppo spesso capita di leggere frettolose critiche, di stranieri, al comportamento sociale dei thailandesi; critiche che troppo somigliano alle critiche che, altri stranieri, rivolgono al popolo italiano ed in tutto simili alle critiche che ogni “cultura” rivolge ad una “cultura diversa”.
Se diamo credito alle neuroscienze la cultura, che viene interpretata come patrimonio comune, è la somma di un assieme di individualità, di singoli cervelli su cui intervengono: “… la natura – cioè la componente genetica (la distribuzione in parte casuale dei neuroni durante lo sviluppo) della struttura celebrale con la quale si viene al mondo – sia la cultura, e cioè il condizionamento ambientale.”
Per Edward Sapir:
“… la cultura di un gruppo nel suo insieme non è una vera realtà. Ciò che è dato, e dal quale dobbiamo partire, è l’individuo e il suo comportamento. Dal punto di vista analitico, l’individuo è il portatore della cultura. Il rapporto tra una mente e la cultura è un incontro tra individui, vale a dire tra cervelli. Ognuno dei quali è unico. I rapporti tra le singolarità danno luogo alla storia, alle competizioni, alle guerre, alle violenze, agli atti d’amore e di altruismo, ai modi individuali e collettivi di vivere e di pensare, ai criteri estetici e quelli morali, alle loro trasformazioni, al gusto, alle tradizioni. Il dinamismo del sistema nervoso consiste nelle modificazioni strutturali e funzionali a seconda del rapporto con gli altri cervelli, con il mondo esterno e a seconda della riflessione. Il clima, la famiglia, l’ambiente, la scolarità, le condizioni sociopolitiche, le lingue che si imparano, le amicizie, gli affetti, le riflessioni, e tutto quanto fa parte della vita, modificano la struttura del cervello. Dal momento che la cultura e l’ambiente modificano la struttura del cervello, il senso comune non è uguale ovunque.” (Cosa sono io. Il cervello alla ricerca di sé stesso – Arnaldo Benini – Ed. Garzanti)
Quindi, se partiamo dall’individuo, scrive Amartya Sen:
“Una persona adulta e consapevole ha la capacità di mettere in discussione quello che le è stato insegnato – ogni giorno. Nonostante le circostanze in cui una persona si trova a vivere possano non incoraggiarla a porsi questo tipo di problema, la capacità di dubitare e di mettere in discussione è patrimonio di ognuno”. (Reason before Identity – Amartya Sen – Oxford University Press)
Evidente che, se le circostanze non incoraggiano ma tendono ad evitare la discussione critica non privilegiando la consapevolezza, per chi controlla il potere risulta più facile plasmare una cultura, se non un’identità nazionale, più consona alle proprie “necessità”.
Un viaggio alla scoperta della vita così come mi circonda, lasciando sorrisi e bianche spiagge thailandesi, se non bellezze storiche e culturali italiane, ai turisti. Senza alcuna pretesa di dare risposte, ma la speranza di proporre interrogativi su cui riflettere.
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