Intervista di Giovanni Nardi tratta dalla rivista “DOC”
Tiziano, il giornalismo è un mestiere come tanti, o un’altra cosa?
“E’ un mestiere, ma non come tanti. Non é una cosa che fai andando a lavorare alle 9 del mattino e uscendone alle 5 del pomeriggio; è un atteggiamento verso la vita che muove dalla curiosità e finisce col diventare servizio pubblico: è missione”.
La risposta è stata immediata, il tono di voce appassionato e vibrante. Tiziano Terzani, 64 anni, gran barba bianca, veste candida, fisico robusto e ispessito, ha nei confronti del suo mestiere lo stesso atteggiamento che aveva quando ci raccontava – da laggiù – il Vietnam e la Cambogia. Allora era più esile, un paio di baffetti scuri, due occhi “liquidi” che avevano fatto invaghire tante compagne del nostro corso di laurea; ma stava mettendo le basi per la sua leggenda di giornalista testimone di quel che accadeva nell’oriente del mondo. Cina, Vietnam, Cambogia, Thailandia, Giappone, Unione Sovietica e infine l’India, che gli ha cambiato nome e abitudini, portandolo a meditare ai piedi dell’Himalaya, dove ormai trascorre, in una baracca spartana, diversi mesi l’anno. Di lui abbiamo parecchi libri, l’ultimo dei quali, Lettere contro la guerra, edito come gli altri da Longanesi, ha riscosso un grande successo, grazie anche al suo impegno, perché è ritornato in Italia a parlarne, soprattutto ai giovani, in un pellegrinaggio cominciato nella sua città, a Firenze, e che in un mese e mezzo gli ha fatto incontrare migliaia di persone. Questa intervista, realizzata agl’inizi dello scorso aprile, all’immediata vigilia della partenza per l’India, non intende tuttavia riproporre la sua voglia di pace espressa nel libro, ma parlare del suo lavoro, anzi della sua “vocazione”.
“Non è un semplice mestiere – prosegue – non un modo di guadagnarsi da vivere, ma qualcosa di più, che ha una grande dignità e una grande bellezza, perché è consacrato alla ricerca della verità. Ecco il suo valore morale, avvertibile nel modo di raccontare, nel presentare i fatti. Certo la scuola, anche una scuola ad hoc, aiuta, ma è propedeutica, perché nessuna scuola potrà mai insegnarti la missione, non ti dà quella cosa in più di cui hai bisogno: la vocazione. E certe scuole di giornalismo mi hanno fatto l’impressione di essere frequentate da seminaristi senza vocazione. Se uno fa il meccanico e lo fa bene, nulla da dire; ma se uno fa il prete, per farlo bene deve avere qualcosa in più. E il giornalista è come il prete: deve avere la chiamata, la vocazione, sentire la missione”.
Giornalismo come missione, d’accordo. E qui in Italia, ce ne sono tanti, di questi missionari.
“Senza vocazione, come ti dicevo, non è un mestiere da fare. Nasce da questo la mia delusione, il mio risentimento, la mia tristezza dinanzi allo stato del giornalismo italiano, dove ho la percezione che ci sia qualcosa, se non proprio di bacato, di distorto. Certo ci sono colleghi bravi e dignitosi, che apprezzo e stimo; ma complessivamente trovo una contiguità, un ossequio, un servilismo nei confronti del potere che sono il contrario di quel concetto di ‘quarto potere’ che dovrebbe caratterizzare il lavoro del giornalista”.
Ma forse tu parli così perché in fondo sei un privilegiato: hai sempre lavorato, a parte gli esordi italiani, in un settimanale tedesco, Der Spiegel, e perciò non hai mai avuto neppure occasione di stare vicino al potere.
“E’ vero che ho lavorato per lo Spiegel, ma certe offerte mi sono arrivate. Non ho mai accettato niente dal potere, neppure un biglietto aereo offerto dalla Fao, perché volevo essere libero di giudicare quel che la Fao stava facendo; e lo stesso è successo quando l’Unione Europea invitò alcuni giornalisti nel Nord Vietnam. Lo Spiegel fu l’unico, credo, a pagare il biglietto. A volte può bastare anche un invito a cena per entrare in una prossimità che ti impedisce di distanziarti dal potere; e la distanza dal potere è vitale. Ma mi dici perché i giornalisti debbono ancora avere gli sconti sui treni? I giornalisti sì e che so, i ginecologi no? C’è una ragione? Si può viaggiare in molti modi: in seconda classe, in pullman, in bicicletta, a piedi. E se uno è distante dal potere, se è economicamente indipendente, ne acquista in dignità, e dal potere è rispettato.”
Ma non è solo questo a roderti, del nostro giornalismo; c’é dell’altro.
“Si, c’è dell’altro, ed è la cialtroneria con cui si riferiscono cose non vere, con cui s’inventa. Mi spiegherò con degli esempi, partendo da lontano. Nel dicembre del 1931 Gandhi, di ritorno da Londra, si ferma a Roma, ospite del generale Morris, dove incontra fra l’altro la moglie di Alberini, che era figlia di Tolstoj; c’è anche una principessa reale che gli regala dei fichi d’India. Mussolini chiede d’incontrarlo, e lui va a palazzo Venezia. Lunga attesa prima dell’incontro, che dura dieci minuti appena: non avevano nulla da dirsi, e il Mahatma, ricordando il Capo del fascismo, lo avrebbe definito un ‘macellaio con gli occhi da gatto’. Ebbene, il giorno dopo il Popolo d’Italia scrisse che l’incontro era durato venti minuti. Non è poi così grave, mi dirai. Ma l’indomani successivo, mentre Gandhi era a Brindisi per imbarcarsi sulla nave che lo avrebbe portato a Bombay, quello stesso giornale uscì con una grande intervista che l’uomo politico indiano non aveva mai rilasciato, e quindi totalmente falsa”.
Ma è una storia vecchia. Non c’è più nessuno, dei giornalisti di quel tempo.
“Allora ti fornisco esempi più recenti. Una signora firmò anni fa un’intervista, apparsa sul Corriere della Sera (direttore era Stille) con il ministro degli esteri della Cambogia. La lessi, e quel ministro era in realtà un modesto funzionario che il ministero mandava incontro ai giornalisti, e che io conoscevo benissimo: aveva portato i bagagli anche a me. Ancora: sul Manifesto uscì un’intervista col capo dei Khmer Rossi, inventata di sana pianta. Denunciai l’autore all’ordine dei giornalisti, scrissi più volte a Luigi Pintor, ma quel grande scrittore e grande giornalista non si è mai degnato di rispondermi. Ne vuoi un’altra? Giorni fa sulla Stampa è comparsa un’intervista esclusiva a Zahir Shah di Afghanistan, alla vigilia della partenza dell’ex re per il suo Paese. In quell’intervista si attribuivano al vecchio sovrano dichiarazioni antiamericane. Ebbene: l’intervista non era altro che alcuni frammenti di conversazioni, forse mal capite, nel corso di un’incontro che alcune signore avevano avuto con Zahir Shah mentre gli consegnavano del denaro destinato alle donne afgane. Ma la cosa aveva provocato un certo fermento, e l’ambasciata Usa aveva chiesto spiegazioni. Morale: la Stampa non solo non chiese scusa, ma addirittura sentì il parere di un esperto su quelle ‘dichiarazioni’ avallandole in tutto e per tutto. Il fatto è che si pubblica di tutto, e senza che nessuno controlli. Sarà che io sono stato abituato a un giornale che ha un archivio meraviglioso, e dove le interviste venivano fatte controllare e controfirmare dall’intervistato, prima di essere pubblicate”.
Ma lavorare per un settimanale è una cosa, per un quotidiano un’altra. Ti ricordi che perfino l’autorevole Le Monde pubblicò la “notizia” della morte di Monica Vitti?
“E’ capitato anche a me, quando un vicedirettore del Corriere mi telefonò per chiedermi un commento sulla morte di Pol Pot. La notizia era riportata anche dalle agenzie di stampa indiane, e io mi misi a scrivere. Purtroppo, Pol Pot era ancora vivo e vegeto, ma si seppe dopo. Quello che voglio dire è questo: anzitutto non si può ‘rubare’ un’intervista. E poi: una notizia non dev’essere pubblicata se non è stata controllata. E in Italia, che pure ha tante cose belle, manca la professionalità, manca il rispetto per la notizia, manca ogni tipo di punizione non per chi sbaglia, ma per chi sbaglia per cialtroneria, per chi non tiene assolutamente conto dei diritti del lettore a essere informato correttamente. Il nostro è un grande mestiere, di straordinaria importanza, paragonabile a quello di un medico. Anche chi scrive può influire sulla vita di una persona: la vita si può togliere in tante maniere. E allora ecco la necessità della dignità, che deve essere conquistata (o riconquistata) attraverso il perseguimento testardo, disciplinato di quella cosa che peraltro si sa che non esiste: la verità. Che è un’approssimazione: ognuno di noi vi si avvicina attraverso una ricerca continua, che è il bello della professione; è come mettere un mattone sopra un altro mattone, per costruire una casa. Vedi: per tutta la vita io ho perseguito i fatti, e poi mi sono reso conto che i fatti non sono tutta la verità, ma anzi spesso me la nascondono, costituiscono uno schermo. Ma occorre comunque partire di lì, dai fatti, e dal loro controllo, prima di scrivere una notizia, un articolo”.
Eppure in Italia ci sono stati giornali che programmaticamente erano nati su questa linea. Penso al Giorno di Baldacci, alla Repubblica di Scalfari…
“Il Giorno degli esordi non l’ho conosciuto, di Repubblica ho avuto percezione diretta. Grazie a quel genio del giornalismo che si chiama Eugenio Scalari, per il quale ho addirittura pensato di lasciare la Germania e ritornare in Italia. Ma la sua è stata una rivoluzione a metà, perché poi il suo giornale è diventato non più espressione soltanto dei giornalisti, ma di altri poteri. Riconosco che ci sono colleghi bravissimi, che spesso i suoi articoli sono belli e stimolanti, ma si raccontano anche tante bufale, e qualche collega è un bandito. Repubblica poteva essere un grande giornale, guadagnarsi una credibilità tale da essere letto da tutti quelli che volevano informarsi; e invece è diventato, come gli altri, un giornale schierato, nella sostanza un organo di propaganda: si sa che sta da una certa parte, ed è giudicato riprovevole da chi sta dall’altra. Segno che a un certo punto è venuta meno una chiara morale visione del giornalismo come servizio pubblico, come missione”.
Riassumendo: scarso controllo delle notizie, compromessi con il potere, scarso rispetto dei lettori. C’è altro di criticabile nella stampa italiana?
“Il fatto che si occupi di tutto, con un’incredibile miopia sul valore delle notizie, sulla scala della loro importanza. Prendi i giornali di questi giorni, Mentre è sempre più avvertibile un contrasto di civiltà, con il mondo dei buoni che intende aver ragione di quello dei cattivi a suon di bombe, mentre si rischia un conflitto che potrebbe mettere a rischio l’intera umanità, questi giornali dedicano pagine e pagine al delitto di Cogne. Non pare anche a te che la sproporzione sia intollerabile?”
Ma i giornali sono anche un prodotto commerciale; devono vendere e stare sul mercato.
“Lo so anch’io. Ma oltre al prodotto c’è anche il cliente, che ha le sue esigenze. E la redditività non è il solo criterio da rispettare. Facciamo un caso diverso dal giornalismo. Oggi sembra prevalere l’idea che un ambasciatore sia bravo se vende bene i prodotti made in Italy. Ma a un ambasciatore dobbiamo innanzitutto chiedere che sia colto e rappresentativo, e soprattutto che sappia capire la realtà politica del Paese che lo ospita. Se poi vogliamo vendere spaghetti, mandiamo venditori di spaghetti. E così dev’essere per un buon giornale. Al lettore non puoi dare troppo di tutto, indifferenziatamente, anche perché finisce che legge solo i titoli, perché a leggerlo tutto, il giornale tipo di oggi, ci vorrebbero ore, un tempo che la gente non ha. Bisogna tener conto che c’è un pubblico colto, intelligente, che vuol sapere. Lo vedi nei giovani che affollano le librerie, che scelgono i libri che trattano le cose importanti. E poi occorre farla finita con il giornale come elenco di sventure. In questo mio viaggio ho visto un’Italia che non conoscevo e che mi ha entusiasmato, piena di cose belle che meritano di essere documentate e raccontate: accanto alle sventure, ci devono essere anche le buone notizie.”
Ci sono anche i condizionamenti connessi alla proprietà.
“Che talvolta sono quasi asfissianti. Finché i giornali saranno posseduti da grandi gruppi, ci saranno limitazioni. Facciamo un caso per assurdo. Metti che un gruppo di scienziati esquimesi scoprano che le automobili fanno diventare impotenti, o che i telefonini facciano venire il cancro al cervello. E’ chiaro che non troverai la prima notizia sulle pagine della Stampa, né la seconda sui giornali posseduti dalle industrie che producono telefoni cellulari. Ma alla lunga – io sono fiducioso su questo, dopo aver incontrato tanti giovani onesti, intelligenti e volenterosi io credo che i giornali dovranno essere un servizio pubblico, e per fare ciò la loro proprietà dovrà essere in mano ai giornalisti o comunque il frutto di un accordo: penso a una società mista in cui il controllo editoriale non ci sia, o comunque non sia forte come adesso”.
Resta sempre il problema delle fonti d’informazione. Sono ormai troppe, e chi ne garantisce l’autenticità? Pensa solo a Internet.
“Internet è una delle grandi cause dell’inquinamento del giornalismo di oggi, dovunque. E’ un immenso oceano senza che esistano manuali di navigazione. Prima di navigare in quel mare tu dovresti aver seguito almeno una scuola per capitani di lungo corso. La cosa più spaventosa è che tutto è messo sullo stesso piano, dalle cose più importanti alle puttanate più insignificanti. Naturalmente non dobbiamo arrenderci, ma imparare a costruire delle reti per pescare in questo mare. Avendo l’umiltà sia di indicare le fonti delle notizie che pubblichiamo, sia di ammettere i nostri errori, quando ne facciamo. Da noi rettifiche e scuse, quando ci sono, sono praticamente illeggibili. Per esempio: un giornale italiano pubblicò la testimonianza di una signora che aveva visto Boris Eltsin ubriaco, dopo essersi scolato 5 bottiglie di vodka. Un giornale americano, che riprese la notizia, cercò quella signora, ma trovò che non esisteva. Chiese allora al giornalista italiano come stavano le cose, e lui ammise che quella testimonianza se l’era inventata. Naturalmente questa notizia apparve in Usa, ma non in Italia. E ancora, mi spieghi perché se uno – l’esempio mi viene facile dopo le mie ultime esperienze afgane – sta a Peschawar deve firmare i suoi servizi da Kabul, magari servendosi delle notizie d’agenzia che il suo giornale gli ha mandato dall’Italia? Non è un modo d’ingannare il lettore?“
Ma dopo tutto questo, ritieni che il giornalismo sia un mestiere da praticare?
“Assolutamente sì. Basta avere curiosità per le persone e le cose, umiltà per non anteporre se stessi ai fatti e alle notizie, rispetto per i lettori, dignità da mantenere nei confronti del potere. E poi, certo, una cultura di base, la disponibilità al sacrificio, la verifica continua che ogni cosa che si scrive sia in linea con quel che si ritiene sia la verità”.
E quindi, che consigli ti sentiresti di dare a un giovane, poniamo sui 25 anni, che voglia fare il giornalista?
“Innanzitutto di non seguire l’esempio dei vecchi, come me o come la signora Fallaci. Poi, di non frequentare le scuole di giornalismo, che servono a poco. Ma studiare si deve: un po’ d’economia, un po’ di storia, le lingue. A proposito: è bene sapere l’inglese e qualche altra lingua europea; ma fossi io quel ragazzo di 25 anni, andrei al Cairo, mi ficcherei all’Università e imparerei l’arabo. Perché oggi sapere l’arabo, per cogliere la realtà di questo mondo, in cui ci possono essere o uno scontro o – come io mi auguro – un dialogo di civiltà, conoscere l’altro è essenziale. Quando eravamo bambini, si diceva che il Mediterraneo era il ‘Mare nostrum’, dimenticandoci di tutti gli altri popoli che vi si affacciano, che quelli africani parlano tutti l’arabo, e che il mare è anche il ‘loro’. Questi popoli, per le ragioni più diverse, ci sono sempre più vicini: è necessario conoscerli bene, attraverso la loro lingua e la loro storia, per avviare un dialogo, per cogliere e rispettare le differenze. Io credo che un giovane così preparato, e attento agli altri, possa fare del buon giornalismo, e liberare i nostri quotidiani, i nostri periodici da quel pressappochismo che ne contraddistingue gran parte. Un giornalismo di fatti e di idee servirà anche a mettere in un canto la voglia di imitare pedissequamente la televisione, e di far prevalere le ragioni del mercato su quelle dell’informazione. Perché se io facessi un giornale pieno di gnocca, forse lo comprerebbero in tanti; ma non farei del buon giornalismo”.
A proposito di gnocca, le più vistose manifestazioni di dissenso che hai avuto durante il tuo pellegrinaggio per l’Italia sono accadute tute le volte che hai detto che il burqa non era poi quell’elemento di discriminazione delle donne nella civiltà afgana dei talebani, e che comunque non era un gran problema, tra i tanti che gli afgani, uomini e donne, dovevano e devono risolvere.
“Il burqa è diventato un fatto mediatico, un simbolo. Ma più per noi occidentali che per le donne afgane. Alla televisione hanno mostrato, dopo la liberazione di Kabul, donne senza il velo, e addirittura burqa bruciati in piazza. Ma si è poi saputo che questa ‘notizia’ era stata predisposta, montata dagli operatori televisivi perché era quello che l’Occidente si aspettava. La libertà dal burqa è un fatto loro, delle donne afgane, la cui emancipazione, la cui pari dignità rispetto agli uomini sarà frutto di scelte consapevoli, non di montaggi televisivi. Per aver detto questo, e aver testimoniato che a Kabul il burqa era ancora l’abito normale delle donne, sono stato duramente attaccato. Ma è più volgare, più discriminante, una musulmana col burqa o una occidentale mercificata, messa in mostra nella sua nudità dalle riviste patinate occidentali, che sono guarda caso dirette da donne, nella maggior parte femministe?”.
Abbiamo lasciato il nostro giovane giornalista all’Università del Cairo, a imparare l’arabo. Una volta padrone della lingua, che cosa gli consigli di fare?
“Di andare a ficcarsi in un Paese arabo per capirne mentalità, costumi, religione, rapporti economici e sociali. Naturalmente, se andrà in un Paese a rischio – penso all’Iraq, ma anche all’Iran, o allo stesso Afghanistan – non dovrà aspettarsi una vita comoda. Ma il suo apprendistato gli servirà per scrivere i suoi articoli secondo l’etica dell’informazione, per esercitare con dignità e rispetto degli altri il mestiere più bello del mondo”.
Fonte articolo: Sagarana