Quella della collezione Savitsky è una storia assolutamente affascinante, degna epopea d’altri tempi. Una vicenda poco nota, persa ai confini del deserto del Karakum, tra Turkmenistan ed Uzbekistan e per l’esattezza a Nukus, la capitale della regione uzbeka autonoma del Karakalpakstan, la stessa dove si trova anche il lago D’Aral, perlomeno la sua parte meridionale. Ma questa storia parla soprattutto di un uomo, che proprio a quella collezione ha dedicato una vita: Igor Savitsky.
Savitsky nasce nel 1915 a Kiev, e la Rivoluzione d’Ottore segnerà presto la sua vita. Infatti, figlio di una famiglia benestante che non attira certo le simpatie bolsceviche, Igor decide di avvicinarsi al proletariato, studiando da elettricista. Ma la natura non può che seguire il suo corso e le pulsioni intellettuali del giovane Savitsky non si possono cancellare, così come la sua passione per la pittura, ben presto frustrata dall’accademia del tempo. Ma fu proprio come artista che Savitsky giunse la prima volta nel Karakalpakstan, nel 1950, al seguito di una spedizione etnografica ed archeologica, e colpo di fulmine fu.
Da quel momento Savistky cominciò ad interessarsi alla cultura dell’Asia Centrale, ed in particolare per tutto quello che riguardava il Karakalpakstan. Non sappiamo il ruolo della retorica sovietica in questo percorso che, dai salotti borghesi, ha portato Savitsky a decidere di vivere tra le steppe ed i deserti centroasiatici; di certo il giovane elettricista mancato divenne presto un importantissimo mecenate della cultura popolare locale, instancabile raccoglitore di opere d’arte e manufatti frutto di artisti ed artigiani assolutamente sconosciuti, ma tutti uniti dal loro essere genuinamente popolo.
Savitsky ricorse ad infinite forme di finanziamento, riuscendo nel suo intento di creare un museo a Nukus, e facendone un punto di riferimento imprescindibile per quanto riguarda la storia dell’arte e della cultura in Asia Centrale, senza considerare l’importanza identitaria che il nuovo museo assunse per i karakalpaki, popolazione povera e spesso bistrattata dall’etnia maggioritaria uzbeka. Ad oggi i karakalpaki sono gelosi della loro identità, e continuano a non sentirsi uzbeki covando addirittura velleità separatiste.
Ma il nosto mecenate non si fermò qui, non rimase solo un collezionista di artigianato locale ed opere d’arte di pittori centroasiatici. Una volta riconosciuto il museo dalle autorità, nel 1966, Savitsky iniziò ad acquistare e custodire opere in contrasto con la linea ufficiale del realismo socialista. Nukus divenne un vero e proprio magazzino di opere d’arte realizzate da artisti invisi al regime sovietico, tanto che diversi tra loro subirono persecuzioni e ricoveri coatti in ospedali psichiatrici. Il Karakalpakstan divenne il centro dell’avanguardia sovietica, una vera e propria galleria d’arte parallela a quelle ufficiali, dove artisti, dapprima uzbeki, e poi provenienti da tutta l’Unione Sovietica, erano esibiti per poi essere nascosti in occasione di visite ufficiali. Come se non bastasse a volte i loro quadri acquistati con denaro pubblico, grazie agli stratagemmi di Savitsky.
Il Museo Statale di Arte della Repubblica del Karakalpakstan, oggi intitolato al suo fondatore, è una delle poche gallerie al mondo dove possono essere ammirate opere, innumerevoli, di artisti sovietici appartenenti a scuole pittoriche a suo tempo condannate dal regime in quanto proprie di “nemici del popolo”. Il che assume ancora più valore in quanto inserito in un contesto difficile come quello del Karakalpakstan, che dal museo trae sicuramente un immenso beneficio. E tutto questo grazie alla passione di un singolo uomo, che per quel museo ha speso ogni minuto del suo tempo, dedicando ad esso anche le ultime energie quando, ormai stremato, si avvicinava alla fine dei suoi giorni.
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