Da sempre, l’Italia è un Paese dalle mille contraddizioni.
Considerata la principale erede dell’Impero Romano, che un paio di millenni fa conquistò con la spada buona parte del mondo conosciuto, in tempi moderni l’Italietta non è mai stata brava, cioè capace, di fare la guerra.
E’ andata meglio in campo economico: con il Boom degli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia, fino ad allora relegata alla periferia della Rivoluzione Industriale, è diventata rapidamente la settima potenza economica al mondo.
Ad ogni modo, la ricchezza e il lustro datogli da alcuni settori di punta hanno cozzato, e ancor’oggi cozzano, con l’arretratezza socio-culturale di buona parte della nazione. Ad esempio, nel Bel Paese i livelli di istruzione sono più bassi della quasi totalità dei paesi occidentali. In media, un italiano possiede meno titoli di studio e spende meno tempo sui banchi di scuola persino di un romeno o di un maltese – con tutto il rispetto per quest’ultimi. La percentuale dei laureati italiani, 21,7% (17,2% fra gli uomini, 26,3% fra le donne), è la più bassa d’Europa. Di conseguenza, più della metà degli italiani ha difficoltà a comprendere l’informazione scritta e molti anche quella parlata. Addirittura, sostiene il principale linguista italiano, sette italiani su dieci non capiscono la lingua.
Come è tristemente risaputo, questo Paese ricco e ignorante ha anche dato i natali alla Mafia, che nei secoli ha imparato a mettersi la cravatta e ad andare all’estero, ma che rimane ancora oggi la prima azienda nazionale controllando il 7% dell’economia. Il “Paese dei Santi” non brilla dunque per onestà, e difatti si ritrova al 72esimo posto nella classifica mondiale della corruzione pubblicata da Transparency International, e soffre di un’evasione fiscale stimata in circa 100 miliardi di euro all’anno.
Perché tutto ciò? Perché uno dei Paesi più ricchi e sviluppati al mondo, che produce scienziati e poeti, stile ed automobili veloci, presenta al contempo degli aspetti della vita sociale così nettamente in contrasto con la sua modernità e relativa eccellenza umana? Da tempo sociologi e storici si arrovellano per cercare risposte, e le teorie avanzate sono diverse: una nazione nata in ritardo, un popolo passivo, una modernizzazione distorta, un paese originale e speciale (come se esistessero paesi non speciali o non originali…). Ad ogni modo, molti degli studi sulla società italiana, come quelli, celeberrimi, di Benedetto Croce ed Antonio Gramsci, sembrano presentare il popolo italiano attraverso alcuni tratti comuni, che Carlo Tullio-Altan in La nostra Italia. Clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’unità al 2000 (Milano: Università Bocconi Editore, 2000) identifica, per l’appunto, in clientelismo (e/o conformismo), trasformismo (e/o opportunismo) e ribellismo.
Per arrivare a questa conclusione, Tullio-Altan guarda soprattutto alla storia di un Paese che, a differenza di altri, non ha prodotto autonomamente movimenti, rivolte o rivoluzioni capaci di generare particolari momenti di discontinuità storica. In altre parole, l’Italia non ha avuto l’esperienza repubblicana inglese dei primi del Settecento o la Rivoluzione Americana e Francese nel Diciottesimo, vicende storiche che hanno prodotto delle spinte alla democratizzazione interne a quei paesi, spesso molto popolari, e che ancora oggi ne influenzano il carattere nazionale. Al contrario, negli ultimi tre secoli la Penisola — intesa come classe dirigente più buona parte della popolazione — ha generalmente guardato con disinteresse, disprezzo o timore alle spinte modernizzatrici che si verificavano di volta in volta altrove. Di conseguenza, la modernizzazione delle istituzioni politiche si è (1) verificata meno frequentemente e (2) come risultato di eventi esterni, come le Guerre Napoleoniche o le due Guerre Mondiali.
In un paese largamente conformista e clientelare governato da Caste pressochè immortali non stupisce che le forze di rottura, gli spiriti liberi, i progressisti, i modernizzatori e i movimenti sociali siano stati attratti dalla ribellione di qualsivoglia forma e colore. Questo spiega perchè negli ultimi secoli il nostro Paese abbia prodotto una serie di partiti, movimenti, individui, gruppi ed ideologie radicali, che intendevano ottenere la modernizzione attraverso assassinii di re, guerre ai papi, ribellioni popolari, o rivoluzioni più o meno armate o violente: carbonari, repubblicani, Briganti, anarchici, socialisti, comunisti, fascisti, Brigate Rosse e terroristi di destra. Tutti questi diversissimi tentativi di rottura con lo status quo hanno avuto in comune l’esito, fallimentare.
La terza attitudine – trasformismo o opportunismo – è forse quella più riconosciuta, scolpita nell’immaginario italico da mille tragedie e commedie e, prima ancora, dall’opera immortale di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, nel quale il Nostro definisce questa “arte” con le seguenti celeberrime parole: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.” Il romanzo contiene anche altri passi che, seppur meno noti, rafforzano il concetto che stiamo cercando di delineare:
È meglio un male sperimentato che un bene ignoto.
La facoltà di ingannare se stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri
I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria.
In parole ancora più semplici, il trasformismo, cioè cambiare posizione per restare dalla parte del più forte e/o del vincitore, è opportunismo allo stato puro. Per l’opportunista, ideologie, norme, regole e valori non hanno forza indipendente, ma vanno appoggiati e cavalcati temporaneamente e strumentalmente per restare a galla e migliorare, o conservare, o non peggiorare la propria posizione sociale. Anche il trasformismo/opportunismo, come spiega il già citato Tullio-Altan, ma come argomenta anche il Prof. Matteo Marini in The Long and Winding Road: The Italian Path to Modernization (in Berger P., Harrison L. [eds.] Developing Cultures: Case Studies. Routledge, London-New York, 2006), non è stato caratteristica esclusiva dei latifondisti siciliani “minacciati” dal Re piemontese che per unificare la Penisola stava cancellando dalla cartina geografica un regno dopo l’altro – e cos’è una monarchia, se non il nepotismo e il clientelismo fatti istituzione? – ma è caratteristica fondamentale del popolo italiano, in quanto torna a ripresentarsi con forza nei momenti cruciali della storia del Paese.
Questa lunga e tediosa riflessione sull’Italia e sugli italiani serve come presupposto, credo, per cercare di dare un senso all’ultimo ventennio e al fenomeno del Berlusconismo, che lungi dall’essere un’esperienza di rottura con l’ethos italico, ha invece incorporato, sviluppato e sublimato alcuni dei caratteri atavici dell’homo italicus. Dunque questo ragionamento serve anche per liberare il campo dai facili entusiasmi che potrebbero nascere in seguito alla sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna del 77enne Silvio Berlusconi a quattro anni per frode fiscale. La condanna è ora definitiva, il crimine è accertato oltre ogni ragionevole o irragionevole dubbio: Berlusconi ha frodato il fisco, la sua azienda, gli azionisti ed il libero mercato. Lo ha fatto per dotarsi di una montagna di soldi, di provenienza illecita, da usare per falsare la politica. Ma il vero aspetto positivo della vicenda, come ha spiegato con il solito acume Alessandro Gilioli, consiste nel fatto che, condannando un uomo ricchissimo e potentissimo, già tre volte primo ministro,
“l’Italia ha dimostrato… di essere uno Stato di diritto… in cui la legge può essere uguale per tutti. Uno Stato in cui ci sono giudici… che non si sono fatti influenzare né dal governo, né dai partiti e nemmeno dal Capo dello Stato: che si sa bene per quale sentenza tifasse. Giudici che non si sono fatti spaventare dal ricatto a reti unificate che andava in onda da mesi: la stabilità, la pacificazione, le reazioni dei mercati!”
E’ stato dimostrato che le istituzioni della Repubblica Italiana, almeno alcune, funzionano e rispettano i capisaldi del pensiero liberal-democratico: la separazione dei poteri e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ma, dal punto di vista del “popolo italiano” per come lo abbiamo tratteggiato, si tratta soprattutto, io credo, dell’ennesimo episodio di una lunga serie di processi. Ce ne saranno altri. Arriveranno altre condanne, assoluzioni, prescrizioni, amnestie, depenalizzazioni. Non cambieranno il punto di vista di tanti italiani, che credono e continueranno a credere ad improbabili complottismi, come, tanto per citare la versione cospirativa più cara all’ex piduista, quella del Berlusconi innocente vittima di giudici bolscevichi che utilizzano la toga per fare politica. Ma anche se, per pura ipotesi, una sentenza dovesse cambiare l’opinione di qualche milione di italiani riguardo al cittadino Silvio Berlusconi, essa non cambierà, con ogni probabilità, gli atteggiamenti, i modelli culturali e gli schemi mentali del popolo italiano nel suo insieme. Credo e temo che clientelismo/conformismo, trasformismo/opportunismo e (spesso sterile) ribellismo continueranno a caratterizzare l’homo italicus. Credo che il necessario cambiamento culturale richieda tempo e risorse. E credo che dovrà necessariamente passare per il rivoluzionamento delle istituzione di socializzazione: famiglia, scuola/università, (chiesa?) e, anche se quest’ultima istituzione è l’unica in rapidissimo cambiamento, anche e soprattutto mezzi di informazione.
Ma, appunto, e per chiudere con una nota di speranza, potrebbe anche essere che la rivoluzione informatica si rivelerà talmente invasiva e capillare da riuscire a modificare nel profondo, ed in brevissimo tempo, quell’italiano che per secoli ha oscillato tra conformismo, opportunismo e sterile ribellismo. Resta da vedere come. Staremo a vedere. O meglio: che ognuno faccia la propria parte.
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