“… il pesce che ancora oggi nuota libero nei mari del nord a qualche chilometro della costa islandese forse non lo sa, ma è già proprietà della Deutsche Bank “. (da Islanda chiama Italia, di Andrea Degl’Innocenti – Ed. Ludica)
Il libro di Andrea Degl’Innocenti ci racconta il rifiuto di rimborsare i creditori esteri delle banche private islandesi sancito con un referendum nazionale dai cittadini islandesi.
Il non onorare questo debito, derivato dal collasso economico islandese (inseribile nel complesso della crisi economico finanziaria in corso nei paesi occidentali), rappresenta una scelta in controtendenza rispetto a tutte le altre nazioni occidentali che hanno aiutato economicamente i sistemi bancari nazionali immettendo liquidità nel sistema. Detto molto semplicisticamente: le banche centrali hanno stampato moneta, indebitando lo Stato (cioè i cittadini/contribuenti), solo per fornire liquidità al sistema bancario in difficoltà a seguito di investimenti più che sbagliati.
Forse la visione proposta dall’autore non sarà condivisa da quanti non “vedono” il dominio dei gruppi economici che, dominando i mercati, dominano anche la nostra vita. Ma molti dei nomi di organismi internazionali ed aziende private citate nel libro ritornano anche nella recente storia italiana e non solo.
A me pare che il titolo sia addirittura riduttivo, potrebbe titolarsi: Islanda chiama Terra.
I gruppi portatori di interessi economici forti, indipendentemente dalla singola cultura/nazione a cui appartengono, si somigliano tutti. La tendenza ed i metodi di questi gruppi appaiono identici, orientare le persone verso un unico credo: il benessere economico come scopo/salvezza dell’umanità.
Ma senza specificare, al contempo, cosa si intenda per benessere all’infuori dell’aumento del PIL e quindi del solo benessere economico. D’altro canto si provvede al benessere economico del gruppo di potere contro ogni sentimento di uguaglianza e rispetto.
Non deve apparire semplicistica la sintesi del percorso storico, economico e socio politico dell’Islanda che l’autore ci propone. Raccontare l’Islanda è come raccontare una media città italiana, ammesso che la città sia posta su di un’isola lontana, fredda e per secoli misconosciuta. Analisi e soluzioni diventano relativamente più semplici da affrontare stante la ridotta schiera di attori protagonisti sul palcoscenico della storia raccontata.
Ma, ad avere occhi per vedere, credo che non si possa che condividere la tesi che mette in discussione il fintamente libero mercato tanto osannato dai liberisti, non fosse solo per l’irrisolvibile crisi in corso a cui il libero mercato ci ha portato.
Per “libero”, i suoi sostenitori intendono assenze di regole che difendano quel privato che tanto esaltano. Per gli apologeti del “libero mercato”, il mercato si regolamenta da solo.
Dimenticano di dirci come un singolo che agisce in condizioni di inferiorità possa mai avere parità di risultato, in una transazione, con una controparte rappresentata da un magnate che è anche creatore dei (falsi) bisogni consumistici.
Chi difende i lavoratori licenziati da un’azienda che trasferisce gli impianti all’estero? E chi difende la manodopera a basso costo che le aziende utilizzano in paesi dove mancano anche le più elementari norme di sicurezza? E questo per fare solo due piccoli esempi.
E neppure ci diranno chiaramente che la trasformazione in atto prevede il mantenimento del potere attraverso la riduzione dei “diritti civili”.
La persona – intesa come rappresentante di un’identità e di un pensiero all’interno di un gruppo sociale che discute democraticamente del proprio futuro e del futuro della comunità – non esiste più se non in piccole frange di resistenza, è stata cancellata dal liberismo economico che a tutto assegna un prezzo; e quando io posso vendere un mio diritto, se non il mio corpo, io non esisto più, rimane solo il valore di mercato del mio corpo. Rimane lo schiavo.
Ma questo, probabilmente, era lo scopo ultimo di quella diffusione di benessere, tipica degli ultimi decenni del secolo scorso, effettuata tramite il libero mercato. Ora che il comodo benessere decresce non difendo i miei diritti fondamentali, difendo il mio diritto a sopravvivere nella giungla.
Le cicliche crisi economiche avvenute nella storia hanno portato, seppur lentamente, ad una crescita dei sentimenti democratici, e credo che l‘ascesa della democrazia nel Ventesimo secolo, come afferma Amartya Sen, sia stato l’evento più significativo del secolo scorso (1).
A me oggi pare che sia iniziato un percorso inverso: dalla democrazia alla legge della giungla, si spera solo un passaggio obbligato, ma temporaneo, per ottenere un futuro progresso democratico.
Non credo esista, in molte democrazie ancora imperfette come quella italiana, alcuna lotta tra chi detiene il potere politico e chi detiene il potere economico, il potere politico è succube prezzolato del potere economico e non rallenta il processo, più semplicemente lo media, sia con la residua forza di rappresentanza pseudo democratica che riesce a mantenere, sia con la corruzione.
Forse siamo già impoveriti, poveri di energia morale e civile.
Questo libro di storia entra come prova documentale all’interno di un dibattito pubblico, già in atto ma in ambiti molto limitati, sui limiti morali del mercato.
Per coloro che volessero leggere qualcosa sull’Islanda e la sua gente, due libri di uno scrittore islandese un narratore della propria terra già citato in un mio precedente post e citato nel romanzo di Degl’Innocenti: Il concerto dei pesci, di Halldór Laxness (Ed. Iperborea).
Un’Islanda di inizio secolo scorso, tanto sconosciuta quanto poetica.
Le passioni e le debolezze di un popolo che transita nella capanna di torba di un vecchio pescatore che testardamente non cede alla logica nascente del mercato.
“Non solo la storia di un contadino alla conquista della propria emancipazione, ma anche della società islandese dell’epoca, di cui l’autore mostra le piccolezze e le meschinità.” (dalla recensione di Gente indipendente – Halldór Laxness – Ed. Iperborea
(1) La democrazia come valore universale – discorso di Amartya Sen pronunciato alla Global Conference on Democracy, New Delhi – 14/17 febbario 1999 e pubblicato sul “Journal of Democracy” nel luglio 1999.
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