Nella regione centroasiatica torna ad aleggiare lo spettro dell’intervento russo in Afghanistan, ma in un contesto decisamente diverso da quello del 1979. Il panorama internazionale è oggi più complesso, ed i fattori da tenere in considerazione sono molti, a partire dall’esistenza degli stati centroasiatici.
La Russia di oggi non è l’Unione Sovietica di Breznev. Quando i carri armati sovietici invasero l’Afghanistan provenendo da Termez, attraverso un ponte di barche sull’Amu Darya, Mosca era il faro del comunismo nel mondo, pronta a sollevare il terzo mondo contro l’Occidente. Oggi è invece una potenza che si sta risollevando dal crollo del 1991, impegnata nel ricostruire il suo ruolo geopoltico, compresa la sua influenza in Asia Centrale. Ma nemmeno l’altra grande protagonista della guerra fredda è ancora la stessa. Gli USA sono una potenza nettamente più debole ed alle prese con problemi di budget, che la portano a preferire alcuni scenari invece di altri, come dimostra proprio, in parte, il ritiro dall’Afghanistan.
I sovietici invasero il territorio afghano per sostenere una classe dirigente comunista dilaniata dallo scontro tra fazioni, oggi la posizione è nettamente più difensiva: ossia evitare le conseguenze di un collasso dell’Afghanistan che potrebbe portare a conseguenze disastrose in tutta l’area. Anche gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse nell’esistenza di un regime afghano stabile, da cui la volontà di trattative con i Talebani, nonostante l’opposizione del (fu) protetto Amid Karzai. Ne consegue che russi e americani siano in questa fase storica molto più propensi a collaborare, per risolvere alla meno peggio il “problema afghano”.
Per gli stati dell’Asia Centrale Afghanistan significa Russia, in quanto la politica afghana di Mosca non può prescindere dal controllo dell’area centroasiatica; come dimostra il caso kirghiso, i russi non stanno con le mani in mano. Le autorità di Bishkek sembrano avere infatti posto fine alla diatriba intorno alla base americana (ufficialmente NATO) di Manas, aperta nel 2001 e da allora al centro di trattative infinite. Nel 2009 da base militare divenne centro di transito, per diventare poi ufficialmente civile e regolarmente minacciata di chiusura, salvo poi concordare un aumento del canone di affitto. Oggi le cose sarebbero cambiate, con i russi che nel 2012 hanno aperto in Kirghizistan una loro base, a Kant, ed hanno stanziato un milione di dollari in aiuti militari, cancellando inoltre il debito (189 milioni di dollari) accumulato dal governo kirghiso verso Mosca.
Molto importante, anzi fondamentale è il confine tra Afghanistan e Tagikistan, già passaggio della quasi totalità dell’eroina afghana, che rischia di essere la porta da cui il radicalismo islamico penetrerà in Asia Centrale se il futuro regime afghano non dovesse controllare il suo territorio. Il Tagikistan è stato l’unico stato centroasiatico a vivere una guerra civile dopo l’indipendenza ed i rapporti di potere non sono ancora stabili, con il governo centrale che di fatto controlla (anche militarmente) la regione autonoma del Gorno-Badakhshan. Per Mosca controllare il Tagiksitan significa anche gestire il problema etnico, dato che lo scontro tra tagiki ed uzbeki è lontano dall’essere risolto facendosi invece ogni giorno più aspro, con rivolte locali che esplodono improvvisamente lasciando ogni volta diversi morti sul terreno. L’ultimo grave scontro si è tenuto significativamente proprio in Afghanistan, a Taloqan, di fronte ad una polizia afghana incapace di gestire la situazione.
Per quanto riguarda gli altri paesi centroasiatici l’Uzbekistan continua a mantenere il suo atteggiamento ambivalente, cercando di porsi tra Russia e Stati Uniti, abbandonando la STCO (Collective Security Treaty Organization) ma partecipando alla SCO (Shanghai Cooperation Organisation) e sognando la NATO (North Atlantic Treaty Organization), rischiando di venire invischiato dalla questione afghana senza una solida scelta di campo che le protegga le spalle. Con Turkmenistan e Kazakistan i rapporti di Mosca si basano invece sul settore energetico. Ashgabat per mantenere la sua indipendenza dal Cremlino è sempre più legata alla Turchia, tramite per vendere gas in occidente. E le recenti manovre navali congiunte di Russia ed Iran, tenutesi nel Caspio, potrebbero essere un chiaro avvertimento lanciato a diversi attori in un teatro, quello caspico, che rischia di diventare esplosivo.
Ed infine il Kazakistan, i cui malumori verso Mosca, più che altro di natura economica, potrebbero diventare una fastidiosa complicazione nelle retrovie del “fronte afghano”. Astana tenta di giocare su più tavoli, compreso quello cinese, e potrebbe riservare ai russi delle sorprese non gradite. In quest’ottica il recente caso, esploso in Italia, del rimpiatro della moglie del dissidente Mukhtar Ablyazov forse, e ripetiamo forse, un “regalo” che Putin ha fatto al presidente kazako Nazarbaev, tramite i buoni uffici di “amici italiani”. Da segnalare come la vicenda sia stata contestuale ad un cambio della guardia all’interno del ministero kazako che gestisce le questioni energetiche.
E se si aggiunge al quadro una Cina molto più forte di quella che era nel 1979, soprattutto economicamente (ad esempio i due terzi degli investimenti esteri in Tagikistan sono cinesi), risulta evidente come il passato non torna mai allo stesso modo.
Fonte iconografica: RIAN Archive
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