Le recenti elezioni presidenziali mongole, dopo una campagna elettorale di basso profilo, si sono chiuse con il risultato che tutti attendevano: la riconferma di Tsakhiagiin Elbergdorj, esponente del Partito Democratico. Essendo questo partito anche al governo del paese, sembra giustificata la parola d’ordine che tutti gli organi d’informazione internazionali hanno lanciato appena saputi gli esiti dello spoglio delle schede scrutinate, ossia che in Mongolia ha vinto la stabilità. Così almeno parrebbe ad un primo sguardo, ma qualche nube si profila sul cielo blu della terra di Gengis Khaan.
Il coro mediatico ha innalzato canti di giubilo per la vittoria di Elbegdorj; la Mongolia è il paese con il più alto tasso di crescita al mondo (12,3% nel 2012) e possiede un patrimonio minerario immenso, ne consegue che per gli investitori esteri stabilità è di fatto sinonimo di affari. Proprio la questione dei diritti di sfruttamento delle miniere mongole è stata al centro della campagna elettorale, e la rielezione di Elbegdorj significa che non ci saranno bruschi cambi di rotta nei confronti delle imprese straniere, e la stessa Cina (che rappresenta il 50% degli investimenti esteri in Mongolia) si è affrettata a riconoscerlo, salutando la rielezione di Elbegdorj. Tuttavia la questione potrebbe essere più complessa di quello che sembra.
Le elezioni presidenziali appena concluse sono state caratterizzate da un’alta astensione (ha votato circa il 57% degli aventi diritto) e la distribuzione dei voti ha rivelato un paese spaccato di fatto in due. Sulla diserzione delle urne sembrano aver pesato gli scandali di corruzione che hanno recentemente investito la classe politica mongola. La vittoria di Elbegdorj risulta infatti essere una vittoria delle classi medie urbane della capitale e delle poche altre città del paese (come Kvhod e Bayangol), e della diaspora. Il sud del paese invece, dove sono le miniere, ha votato compattamente per lo sfidante: Badmaanyambuugiin Bat-Erdene, del Partito Popolare. La campagna elettorale dell’opposizione si è caratterizzata per la richiesta di un cambiamento della politica favorevole agli investitimenti stranieri, ponendo inoltre il problema ambientale legato all’estrazione dei metalli preziosi.
I due terzi degli abitanti della Mongolia vivono sotto la soglia di povertà ed il partito di maggioranza dovrà tenerne conto, soprattutto visto l’esito elettorale. La divisione che attraversa il paese rischia di traferirsi all’interno del Partito Democratico, con un Elbegdorj che non sembra intenzionato a rivedere la sua politica favorevole agli investitori stranieri, ma che invece vuole continuare nella riforma di campi quali la giustizia proprio per attrarre investimenti. Tuttavia una politica oscillante del partito al potere si è già rivelata con l’approvazione – nella seconda metà del 2012 – di una nuova legge sull’estrazione mineraria, che attribuisce alle autorità locali maggior potere in merito all’approvazione di progetti minerari. Questa legge, espressione di una volontà di maggior controllo statale sulle compagnie straniere ha provocato non pochi malumori, ai quali si sommano le proteste di stampo ecologista.
La Mongolia, nel tentativo di destreggiarsi tra Cina, Russia ed Unione Europea, tenta inoltre sempre più di accreditarsi come mediatrice internazionale, non da ultimo nella crisi nordcoreana. Ma sul piano interno il pericolo è rappresentato dalla forbice di diseguaglianza tra le classi medie urbane e gli abitanti delle campagne. E non si può escludere che qualcuno vorrà giocare la carta nazionalista come collante sociale e per distrarre il malcontento di parte della popolazione. La grossa domanda che sorge spontanea è: di chi sarà rappresentante Elbegdorj Tsakhiagiin? Di tutto il paese o di una classe media occidentalizzante che gode i frutti di un settore minerario oggetto delle mire di molti? Domanda resa ancora più complessa dal peso demografico della capitale.
Il “miracolo mongolo” potrebber avere basi meno solide di quello che si pensi…
Fonte immagine: Jonah Kessel
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