Il XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese, che ha posto Xi Jinping alla guida del paese, secondo gli esperti ha deluso le aspettative. Ci si aspettava infatti una svolta radicalmente più innovatrice, ma questa resta forse una posizione propria di chi tende ad abusare di categorie occidentali nella lettura della politica cinese. Quello che rimane certo è che in Cina la classe dirigente si trova di fronte a scelte epocali.
Tuttavia significativi cambiamenti sono avvenuti nella composizione del Consiglio di Stato. Tralasciando la diminuizione del numero dei membri, da sempre variabile in base ad esigenze politiche, va sottolineata la diversa formazione culturale di questi rispetto ai predecessori. Oltre ad essere più giovani, secondo una politica di ringiovanimento della classe dirigente in voga dagli anni ’80, i nuovi membri del Consiglio hanno un livello d’istruzione nettamente più alto. Molti di loro vengono poi da una carriera accademica, spesso in ambito industriale, avendo inoltre esperienze gestionali dirette. Siamo ormai quindi ben lontani dalla “generazione di ingegneri” cresciuti durante la Rivoluzione Culturale.
Alla Cina serve un nuovo modello di sviluppo, senza troppi giri di parole. Il “Chinese dream”, che ha permesso, a partire sempre dagli anni ’80, di allontanarsi dall’emulare lo stile di vita americano è ormai in crisi. Gli squilibri sociali in Cina sono oggi enormi e, a fronte di una classe di super-ricchi, il potere d’acquisto della popolazione è in calo. La Cina vede inoltre una riduzione dei tassi di crescita, segnando di fatto la fine di quella che era definita “turbocrescita”. Oggi si impongono scelte qualitative, come il passaggio alle energie rinnovabili ed il fare fronte al dividendo demografico negativo, ossia l’avere più anziani che popolazione in età lavorativa.
Secondo i suoi detrattori il “sogno cinese” si è rivelato vuoto, e gli slogan di sviluppo armonioso non sono che mera retorica. Secondo costoro le promesse della classe dirigente sono state disattese e gli unici a trarre vantaggio dalla crescita economica sono stati i membri della classe media, a discapito dell’eguaglianza sociale. Per contro altri analisti sostengono che per vedere gli effetti di processi così imponenti serva tempo, rimarcando come la popolazione cinese stia vivendo, tra le altre cose, un inizio di accesso al welfare, ed imputano alla crisi globale la riduzione dei tassi di crescita. Resta il fatto che la classe dirigente cinese deve affrontare il problema di come riempire di contenuti il “sogno cinese”, non dimenticando che dalla crescita economica, e dalle riforme, deriva la legittimazione politica.
Altra grande questione da risolvere è quella della corruzione connessa alla struttura dell’apparato statale. Le grosse aziende di stato di fatto sono degli ostacoli rilevanti sulla via delle riforme, rappresentando quei gruppi di interesse che non vogliono vengano modificati gli equilibri di potere. I manager di queste aziende mantengono infatti una logica feudale, essendo stati scelti dal Partito, che a loro volta condizionano. Allo stesso modo spesso i poteri locali si oppongono alle scelte del centro, al punto che dal 1994 si è provveduto a porre fine al federalismo, accentrando il potere, con il conseguente rischio di scontro tra dirigenti e popolazioni locali. Infine va riformato il sistema clientelare, adatto alla fase di decollo economico ma che rischia poi di diventare stagnazione, come avvenuto in Giappone e Corea.
I giorni del “chinese dream” sembrano contati, la nuova classe dirigente dovrà fare i conti con i propri limiti senza precipitare il paese nell’instabilità. Una situazione interna, quella cinese, davvero delicata, dove a voci sostenitrici di maggiori liberalizzazioni si accompagnano pensieri autoritari, invocanti un forte Partito Comunista che possa rimettere ordine nel caos creatosi sotto il cielo.
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