In Bangladesh mercoledì scorso un palazzo di otto piani è crollato e sono morti almeno 400 operai. Lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza e producevano capi di vestiario per conto di multinazionali tra cui anche l’italiana Benetton. Oggi si sono svolte le manifestazioni dei lavoratori e dei parenti delle vittime del più grave incidente nella storia industriale del Bangladesh.
BANGKOK (Asiablog) – Oggi, Primo Maggio, un lungo corteo di lavoratori si e’ snodato attraverso il centro di Dacca (altrimenti traslitt. in Dhâkâ o Dakka), la capitale della Repubblica Popolare del Bangladesh. Con piu’ di 160 milioni di abitanti in meno di 150.000 km² (cioe’ quasi tre volte la popolazione italiana in un territorio grande la metà dell’Italia), il Bangladesh è tra i paesi più densamente popolati del mondo, nonché uno dei piu’ poveri. La manifestazione del Primo Maggio e’ abitualmente un’opportunità per i lavoratori bengalesi per sfogare le loro rimostranze. Quest’anno, dopo la tragedia del 24 aprile, la data ha assunto un significato decisamente poco retorico. Con bandiere, striscioni e cori urlati a squarciagola, i manifestanti hanno chiesto sicurezza sul lavoro e pena di morte per il proprietario dell’edificio crollato la scorsa settimana. Il disatro ha ucciso almeno 400 persone, senza contare i 2.500 feriti e circa 1.000 dispersi. I manifestanti hanno sventolato la bandiera nazionale e bandiere rosse di partiti e sindacati. Molti battevano tamburi e cantavano “azione diretta,” “basta schiavitu’” e “pena di morte per i responsabili!” Da un altoparlante sul retro di un camion, un uomo si e’ rivolto alla folla dicendo: “Mio fratello è morto. Mia sorella è morta. Il loro sangue non sarà versato invano!”
IL CROLLO E LA RESPONSABILITA’ – Il palazzo crollato, il Rana Plaza, si trovava a Savar, un sobborgo 25 km a nord est di Dacca. Il fatiscente edificio era costituito da otto piani, quasi tutti occupati da piccole aziende tessili con oltre 3000 operai e soprattutto operaie. Secondo le indagini, il palazzo poggiava sull’area di uno stagno riempito con terreno friabile e, secondo le autorità, era privo di permessi regolari. I lavoratori sopravvissuti hanno riferito che i proprietari delle fabbriche del Rana Plaza non avevano mai dato peso agli allarmi sulle crepe sospette lanciati dagli operai. I lavoratori – fra cui moltissime donne – si erano rifiutati di entrare nel palazzo fabbrica perché da giorni avvertivano scricchiolii nelle strutture portanti. Ma erano poi stati costretti a entrare al lavoro sotto la minaccia di licenziameno. Intanto la polizia ha arrestato Mohammed Sohel Rana, il proprietario dell’edificio, mentre cercava di scappare all’estero. Rana, legato a doppio filo con il partito al potere, e’ accusato insieme ai titolari delle ditte di non aver fatto sgombrare il palazzo dopo la scoperta delle pericolose crepe sui muri, dovute anche all’innalzamento di un altro piano per ospitare ancora più operai. Verrà processato con le accuse di costruzione pericolosa e responsabilità diretta nella strage. Due ingegneri, che hanno firmato senza verifiche le autorizzazioni, sono stati arrestati insieme ai capi delle fabbriche che non hanno voluto chiudere dopo l’allarme delle crepe.
LE AZIENDE STRANIERE – Le fabbriche tessili che avevano sede nel palazzo crollato, e i cui dipendenti lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza, producevano capi di abbigliamento per conto di una serie di multinazionali, tra le quali, secondo Il Fatto Quotidiano, TMNNews e la Campagna Abiti Puliti, anche l’italiana Benetton. L’azienda veneta aveva in un primo primo momento negato legami con i laboratori venuti giù nel crollo, ma le foto scattate e pubblicate dall’Associated Press raccontano un’altra verità: tra i calcinacci, accanto a quello che pare la commessa di un ordine, si vede una camicia di colore scuro griffata Benetton. Non solo: l’agenzia France Press fa sapere di aver ricevuto dalla Federazione operai tessili del Bangladesh documenti contenenti un ordine da circa 30mila pezzi fatto nel settembre 2012 da Benetton alla New Wave Bottoms Ltd, una delle aziende manifatturiere ingoiate dal crollo. La dicitura “Benetton” appariva anche sul sito internet dell’azienda, all’indirizzo www.newwavebd.com, ma fin dalle ore successive al crollo la pagina non è più accessibile e in rete ne resta solo una copia cache. “Main buyers” (Clienti principali), si legge in alto a sinistra; più in basso, sotto la dicitura “Camicie uomo-donna”, l’elenco degli acquirenti: tra questi, numero 16 della lista, figura “Benetton Asia Pacific Ltd, Honk Kong”. Nell’elenco delle multinazionali che sfruttavano gli operai bengalesi ci sarebbero altre tre aziende italiane: la Itd Srl, la Pellegrini Aec Srl e la De Blasio Spa, ma non è chiaro se al momento dell’incidente vi fossero ancora rapporti di lavoro in corso. La Pellegrini, anzi, specifica che le ultime commesse con la ditta bengalese risalivano al 2010. Un’altra ditta, Essenza Spa, che produce il marchio Yes-Zee, ha confermato di essersi rifornita al Rana Plaza. Ammissioni sono quasi subito arrivate anche dall’inglese Primark, dalla spagnola Mango (che ha confermato di aver ordinato merce per 25 mila pezzi), la britannica Bon Marche, la spagnola El Corte Ingles e la canadese Joe Fresh. Nell’elenco delle aziende straniere coinvolte ci sarebbero anche lo svedese H&M, lo statunitense Gap, l’olandese C&A, il cinese Li and Fung, Primark, Wal Mart e Kik.
MOBILITAZIONE INTERNAZIONALE – Gli attivisti della Campagna Abiti Puliti (sezione italiana della Clean Clothes Campaign), insieme con i sindacati e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori attivi in Bangladesh e in tutto il mondo, hanno chiesto una immediate mobilitazione internazionale. Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, ha dichiarato:
“Tragedie come questa mostrano la totale inadeguatezza dei sistemi di controllo e delle ispezioni condotte dalle imprese senza il coinvolgimento dei sindacati e dei lavoratori. La gravità della situazione richiede un’assunzione di responsabilità immediata da parte dei marchi internazionali coinvolti, del governo e degli industriali bengalesi, che devono porre fine per sempre a tragedie come questa, l’ennesima per totale negligenza del sistema imprenditoriale internazionale. Aziende importanti come la Benetton – aggiunge Lucchetti – hanno la responsabilità di accertare a quali condizioni vengono prodotti i loro capi e di intervenire adeguatamente e preventivamente per garantire salute e sicurezza nelle fabbriche da cui si riforniscono. Non possiamo continuare ad assistere ad un tale sacrificio di vite umane dovuto alla totale irresponsabilità di un sistema produttivo basato sulla competizione al ribasso. Le famiglie delle vittime e i feriti rimaste senza reddito e supporto ora hanno diritto a cure adeguate e risarcimento appropriato da parte delle imprese coinvolte per gli irreparabili danni subiti, oltre a giustizia immediata e assunzione di responsabilità da parte di tutti colore che dovevano prevenire questa carneficina.”
Per mettere fine a questi incidenti, la Clean Clothes Campaign esorta i marchi che si riforniscono in Bangladesh a firmare immediatamente il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement. Secondo la Campagna Abiti Puliti questo accordo, costruito da sindacati bengalesi e internazionali insieme agli attivisti dei diritti del lavoro, porterà a ridurre sensibilmente l’esistenza di ‘fabbriche trappola’ come Rana Plaza. Il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement comprende ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza. È un’operazione di fondamentale trasparenza che deve essere sostenuta da tutti gli attori principali bengalesi e internazionali. L’accordo è già stato sottoscritto lo scorso anno dalla società statunitense PVH Corp (proprietaria di Calvin Klein e Tommy Hilfiger) e dal distributore tedesco Tchibo. “È il momento che tutti i principali brand del settore si impegnino per garantirne una rapida attuazione. Il programma può salvare la vita di centinaia di migliaia di lavoratori attualmente a rischio in fabbriche insicure e costruite illegalmente”.
“MADE IN BANGLADESH” – Il Bangladesh è il secondo esportatore di prodotti tessili al mondo. Nel Paese vi sono oltre 4.000 fabbriche che producono vestiti per celebri ditte internazionali. Il settore occupana più di 3 milioni di persone, il 90% donne, in condizioni di lavoro spesso pessime, a volte disumane. Secondo le stime dell’International Labor Rights Forum, dal 2005 al 2012 oltre mille operai tessili hanno perso la vita in incidenti causati dalle scarse condizioni di sicurezza dei laboratori bengalesi. Cinque mesi dopo l’incendio che uccise 112 persone in un’altra fabbrica di abbigliamento, la Tazreen Fashion Limited, la nuova tragedia ha evidenziato l’esistenza di enormi problemi di sicurezza nel settore dell’abbigliamento del Bangladesh, che vale 20 miliardi dollari l’anno e rifornisce i rivenditori in tutto il mondo.
MULTINAZIONALI E “GLOBALIZZAZIONE” – Le multinazionali della moda che si arricchiscono sfruttando la manodopera a basso costo dei paesi poveri per il momento si dividono tra chi nega le proprie responsabilità e chi promette rimborsi alle famiglie delle vittime. La Primark, gigante britannico nella produzione di abbigliamento a basso costo che nel palazzo crollato aveva alcuni laboratori che confezionavano suoi articoli, ha fatto sapere che verserà un’indennità a favore delle famiglie delle vittime. Primark ha spiegato: ”Daremo aiuti nel lungo termine ai bambini che hanno perso i genitori, aiuti finanziari per i feriti e per le famiglie in cui ci sono state vittime”. Basterà a placare la rabbia delle famiglie operaie del Bangladesh? Gli operai che lavorano per le grandi ditte internazionali, di quelli che sfilano sulle passerelle parigine o milanesi o che pagano migliaia di euro al mese per avere i propri punti vendita nei salotti delle capitali e delle ricche citta’ di tutti il mondo, lavorano anche dodici ore al giorno, spesso senza ferie, senza assicurazione sanitaria, senza diritti. In Bangladesh lo stipendio minimo si aggira intorno ai 350 euro. All’anno. Esattamente il costo di alcuni dei capi che con il loro lavoro contribuiscono ad assemblare.
Ma non sono solo i vestiti piu’ costosi ad ammazzare gli operai dei paesi poveri. Negli ultimi anni in Occidente e’ fiorito il mercato delle t-shirts a basso costo, delle quali, soprattutto in tempi di crisi economica, molti sembrano non poterne fare a meno. Gli occidentali farebbero meglio a fare piu’ attenzione a dove e come quelle t-shirt vengono prodotte – vale a dire alle condizioni dei lavoratori del Peru’, del Bangladesh o del Vietnam. La loro concorrenza al ribasso fa scappare le aziende occidentali in Asia e ‘regala’ alla classe operaia occidentale impoverita dei prodotto di consumo a basso costo. Una t-shirt a 9.95 euro è certamente molto conveniente, ma non si può certo dire la stessa cosa se si ragiona in termini di sfruttamento di uomini e donne, sangue, arti amputati e vite umane innocenti perse sotto le macerie. Se dovessimo superare la nostra ignoranza e scoprire la vera storia dell’ennesima t-shirt che vorremmo acquistare, l’acquisteremmo ugualmente?
Tra l’altro, nel cosiddetto Villaggio Globale, garantire giustizia, sicurezza e diritti a tutti i lavoratori renderebbe meno competitive le fabbriche che giocano sporco, e forse ribalterebbe il corso di una “globalizzazione” strettamente legata allo sfruttamento dei lavoratori dei paesi poveri di soldi e democrazia, premiando chi produce in modo umano piuttosto che chi produce sfruttando e ammazzando gli esseri umani.
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Le immagini della tragedia sul Boston Globe.