« L’Ulisse è la vita così com’è. È un libro dove non esiste la serietà. »
Gianni Celati – Bologna, marzo 2013
È appena uscita la nuova traduzione di Gianni Celati dell’Ulisse di James Joyce (Ed. Einaudi). Da recensioni apparse sembra valga la pena rileggerlo anche se conosco lettori che non sono mai riusciti a terminarne la lettura.
All’epoca ho letto l’edizione nella mitica Collana Medusa (trad. Guido De Angelis). Dato il prezzo esorbitante (18mila lire) chiesi, sfacciatamente, ad una zia di regalarmelo. Io ho due cari amici, a loro volta amici di Celati, che applaudono la nuova traduzione, non saprei se per puro affetto nei confronti dell’autore o altro, comunque sto aspettando che Amazon mi recapiti il volume.
L’Ulisse è un libro scritto da qualcuno che doveva diventare tenore (Joyce quando abitava a Trieste), uno che aveva imparato a trasmettere sulla pagina ciò che i musicisti chiamano «orecchio interno», al di là del senso oggettivo delle parole. In effetti, se facessimo il calcolo di quante cantate spuntano nell’Ulisse ogni poche pagine, vedremmo un ventaglio di citazioni canterine che sono la spina dorsale joyciana per scavalcare tutti i discorsi e intendersi con diversi richiami musicali: dall’opera lirica alla filastrocca oscena, da un canto gregoriano («Gloria in excelsis Deo») al rumore della carrozza del viceré che passa sul lungofiume («Clapclap, Crilclap»), dai nursery rhymes a una poesia tedesca sul canto delle sirene («Von der Sirenen Listigkeit…»), dal verso del cuculo («Cucú! Cucú») al Fiore di Siviglia (opera lirica), dalle battute per tenere il ritmo d’una pagina («Tum» «Tum») a quelle di altri suoni («Pflaap! Pflaap! Pflaaaap»), alla cantata mozartiana, ricorrente nei pensieri di Mr Bloom: «Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor», e cosí via. (Dalla prefazione di Gianni Celati)
Di legger libri non sono mai stanco
ma se ne leggo troppi mi intontisco;
perché non trovo più quel gusto franco
di quando con le frasi anch’io fluisco.
Getto via il libro, seccato, al mio fianco;
le sue parole mi sembrano pietrisco;
io e lui ora sogniamo un libro bianco
senza quel bla bla bla in cui m’intontisco.
Poi lo riapro e come un saltimbanco
Cerco qua e là: ecco un brano che gradisco!
Il cuore si rallegra, mi rinfranco,
che mistero c’e’ sotto? Non capisco.
Provo la gioia del niente di speciale,
e contento poso il libro sul guanciale.
(Lode del niente di speciale, Gianni Celati)
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