Tumulti e rivolte si diffondono nelle province industriali del Guangdong, Jiansu e Zhejiang. Gli “incidenti di massa”, come li hanno definiti a Pechino, si moltiplicano. A manifestare il dissenso non sono i secessionisti dello Xinjiang o gli indipendentisti del Tibet, e tanto meno gli intellettuali oppositori. Sono i contadini, i migranti rurali e gli operai che rivendicano la proprietà collettiva della terra, contestano l’aumento dei beni alimentari, i bassi salari e gli interessi capitalisti dell’economia di mercato socialista. […]
La popolazione rurale (57% della popolazione totale) rivendica i diritti collettivi di utilizzazione dei terreni agricoli sanciti con la riforma di Deng Xiaoping (1978), terreni ora privatizzati e svenduti a speculatori e società di costruzioni. […]
Dov’è la “nuova Cina” che il PCC afferma di aver costruito? Ad emergere non è solo il ritorno alla “vecchia società” ma anche la debolezza della “strategia inglobante” dello stato-partito a fronte di una minacciosa atomizzazione sociale, alla quale risponde con la severità del pugno di ferro in guanto di velluto, inasprendo la morsa repressiva sugli oppositori e dissidenti.
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[Nella foto, le firme dei cittadini a favore delle proteste di Lufeng, Guangdong, Cina. Dal NYT)