Bangkok – Il 19 maggio del 2010 l’Esercito Reale sparo’ sulle decine di migliaia di camicie rosse assembrate nel centro della capitale per chiedere le dimissioni del Governo Abhisit. Il risultato fu un bagno di sangue in cui persero la vita quasi cento persone, tra le quali anche il reporter italiano Fabio Polenghi, ucciso in circostanze mai chiarite. Oggi, dopo dodici mesi da quella tragedia, la Thailandia si prepara a tornare alle urne. Le elezioni sono previste per il 3 luglio e la campagna elettorale e’ a dir poco infuocata, caratterizzata da manifestazioni di piazza, intimidazioni, omicidi politici e voci di possibili nuovi colpi distato.
Le radici della spaccatura sociale risiedono in un fatto semplicissimo: come altri paesi del sudest asiatico, la Thailandia e’ governata da una ristretta oligarchia basata nella capitale. La società rimane sostanzialmente semi-feudale, dove i ricchi, gli aristocratici, la Corte e l’esercito utilizzano i poteri dello Stato per conservare i propri privilegi, continuare a speculare e sfruttare lavoratori e contadini. Sono queste le ragioni alla base delle diseguaglianze estreme del Regno della Thailandia, dove il settanta per cento delle proprietà è in mano al venti per cento delle famiglie, e dove le Ferrari e le Lamborghini dei rampolli della Bangkok bene fanno da contraltare alla poverta dei villaggi di contadini dove i ragazzini cavalcano i bufali.
Kasian Tejapira, docente della Thammasat University di Bangkok e allievo del grande storico Benedict Anderson, ha descritto questo sistema come una “semi-democrazia”. Il suo maestro gli ha risposto con un articolo apparso sul sito web della Midnight University giudicando la definizione troppo ottimista. Secondo Anderson, la Thailandia va invece descritta come un paese controllato in larga misura da un complicatissimo intreccio di oligarchie. Questo sistema di potere, definito Amathayathipatai, consiste in una sorta di aristocrazia a strati nella quale famiglie e clan sono interconnessi nei modi più disparati e, soprattutto, i cui business sono intrecciati e interdipendenti. I figli di questa élite frequentano le stesse scuole, escono negli stessi locali e finiscono per unirsi in matrimonio. In definitiva, si tratta di una casta che condivide gli stessi valori e gli stessi interessi, che ha sviluppato una solidarietà di classe e detiene tutti i mezzi per difendere il suo potere.
L’ex premier esule Thaksin Shinawatra e’ un imprenditore miliardario, ma non appartiene all’elite tradizionale. Si arricchi’ a dismisura nel giro di pochi anni, fondo il partito Thai Rak Thai (i Thailandesi Amano i Thailandesi) nel 1998 e vinse le elezioni nel2001 con il 40% dei voti. Nel giro di pochi mesi, il suo governo fece quello che nessuno credeva possible: varo un piano di assistenza sanitaria di base universale e istituì un ticket di soli trenta baht(meno di un euro) per ogni cura medica, garantendo l’accesso alle cure mediche anche ai più poveri tra i poveri, finanzio’ quindicimila villaggi con un milione di baht (circaventicinquemila euro) ogni anno da gestire autonomamente e impose a tutte le banche di aprire uno sportello per i prestiti agrari disponibili anche per i contadini poveri che non avevano nemmeno un pezzo di terra o una casa da dare in garanzia. Queste e molte altre riforme trasformarono il miliardario di Chiang Mai in un mito delle classi piu svantaggiate. Alle elezioni del 2005 il suo partito raccolse il 60 per cento dei voti, e lo stesso fece l’anno successivo.
Ma Thaksin non era Robin Hood, e mentre con una mano toglieva ai ricchi per dare ai poveri, con l’altra continuava a riempire le tasche delle sue aziende. Inoltre, non solo una parte dei thailandesi ma anche molti autorevoli osservatori internazionali criticarono aspramente la sua “guerra alla droga”, con la quale migliaia dipersone vennero giustiziate senza processo. Ugualmente criticabile fu la sua gestione della guerriglia separatista nel sud del paese, per non parlare della corruzione, che resto’ ai soliti livelli sfacciati nonostante le promesse di repulisti generale, e dei tentativi dimettere il bavaglio alla stampa.
Queste ragioni gli alienarono le simpatie non solo dell’oligarchia tradizionale ma anche di tanti bangkokiani, che iniziarono a scendere in piazza in una serie di manifestazioni di protesta colorate di giallo che portarono infine al colpo di stato del settembre del 2006, col quale l’esercito sostituì il governo di Thaksin con una giunta militare. Thaksin se ne resto’ in esilio, il suo partito venne sciolto e la giunta militare scrisse una nuova Costituzione. Ma il popolo non aveva cambiato opinione, e nuove elezioni nel dicembredel 2007 riportarono al governo i thaksiniani, che nel frattempo avevano formato un nuovo partito: il Partito del Potere del Popolo (PPP).
Il PPP formo’ un governo ma non ebbe vita facile. Il movimento anti-thaksiniano delle camicie gialle riteneva il governo illegittimo in quanto eterodiretto da un latitante all’estero, Thaksin. Nel giro didue anni, nuove imponenti manifestazioni dei gialli, il blocco dientrambi gli aeroporti, la sentenza della Corte Suprema che squalifico’ anche il PPP e le pressioni non troppo velate dell’esercito fecero si che decine di parlamentari eletti nel PPP si prestassero a un ribaltone che permise all’oxfordiano Abhisit, leader del monarchico e conservatore Democratic Party, di formare un governo. Dal gennaio del 2009 il Democratic Party guida il governo nonostante non vinca le elezioni dal 1996. I thaksiniani, finiti finalmente all’opposizione, hanno formato il partito Pheu Thai (Per I Thailandesi), finanziato dallo stesso Thaksin, che dalla sua villa di Dubai non ha mai fatto mistero di voler riavere indietro sia i soldi sequestratigli dalla magistratura sia la poltrona di primo ministro sfilatagli dall’esercito. E’ ancora relativamente giovane, per cui potrebbe riuscirci.
Leggi la seconda parte dell’articolo:
Elezioni in Thailandia: Rischio di birmanizzazione