Terremoti, tifoni, tsunami, incendi, vulcani, attacchi nucleari e terrorismo: il Giappone è da sempre terra di disastri, e ciò si riflette nella cultura popolare, dall’arte alla letteratura fino ai mostri, ai manga e a cartoni animati
Il Giappone è un arcipelago sulla cresta della cosiddetta Cintura del Fuoco del Pacifico. Le isole che formano questo paese dell’Estremo Oriente costituiscono la parte emersa di una grande catena montuosa in bilico tra la placca tettonica del Pacifico e quella del Mare delle Filippine. Il Paese del Sol Levante nella sua storia ha subito innumerevoli disastri naturali, dall’eruzione del vulcano del Monte Bandai nel 1888 (sotto), che ha ucciso quasi 500 persone e seminato detriti per interi villaggi, fino al terribile terremoto del Tōhoku della settimana scorsa, il cui numero di vittime non è ancora chiaro.
Nel solo Ventesimo secolo, il Giappone è stato piagato da una lunga serie di terremoti, tifoni, tsunami, incendi e eruzioni vulcaniche, per non parlare dei due attacchi nucleari statunitensi e dei molteplici episodi di terrorismo. Il Giappone ha sempre risposto alle tragedie con stoiche ricostruzioni. Ma a differenza di altri popoli, i giapponesi hanno riflesso il loro difficile rapporto con Madre Natura e con le catastrofi causate dagli uomini attraverso una lente culturale unica, producendo film di mostri, poesia Zen, letteratura post-apocalittica, e persino manga pornografici con tanto di stupri tentacolari.
Perché dunque la risposta culturale del Giappone alla sua storia di disastri è così unica e fantastica? E da dove proviene? Lo spiega con chiarezza l’articolo Japan, Land of Disaster di Britt Peterson, apparso su Foreign Policy il 14 marzo 2011.
Per secoli, influenzati dall’ambiente in cui si trovavano, autori, poeti e artisti giapponesi hanno riflettuto sull’instabilità esistenziale della vita. Ad esempio il saggista Kamo no Chōmei (1155-1216) in Hōjōki (方丈記, Ricordi della mia capanna), tratta delle calamità e della crudeltà della natura e degli uomini. In particolare dipinge l’autore discute il terremoto del 1185:
«Poi ci fu il grande terremoto del 1185, di una intensità prima sconosciuta. Le montagne vennero sbriciolate e i fiumi sepolti; il mare si sollevò e sommerse la terra. […] Di tutte le cose spaventose del mondo, nessuna è così spaventosa come un terremoto.»
Kamo no Chōmei discute dell’importanza di rispondere a questi avvenimenti ritirandosi a vita eremitica per meditare sulla “vanità e insensatezza del mondo” — una opportunità, aggiunge Kamo, della quale pochi approfittano:
«Il mondo è visto come una casa in fiamme, ed è perché è un mondo fragile, reso ancora più fragile dal desiderio, dall’avarizia e dall’avidità umana. E un modo per affrontarlo è quello di frenare il desiderio, se non sopprimerlo completamente…»
E ancora:
«Del fiume che procede, lo scorrere è ininterrotto, seppure l’acqua di ogni momento non lo sia. Nello stagno, la spuma ora svanisce ora si riforma, senza rimanere a lungo. Così al mondo sono la gente ed i luoghi in cui risiede.»
Questa tendenza tipicamente giapponese di rispondere alle catastrofi con la meditazione e la calma è riconducibile alla parabola della “Casa che Brucia” della Sutra del Loto.
Inoltre, come sostiene Susan Napier, professoressa di letteratura giapponese presso la Tufts University, un filo comune nella risposta giapponese ai disastri naturali è il concetto che la condizione di transitorietà ha una sua bellezza:
«È precisamente perché le cose non durano che esse sono bellissime»
Kokan Shiren (1278-1346), poeta e maestro Zen, ha scritto questa poesia sulle conseguenze di un terremoto:
Le cose ancora si muovono,
lo stabile diventa instabile,
la terra come le onde dell’oceano,
la casa come una barca –
tempo di avere paura,
ma anche tempo di piacere;
assenza di vento, eppure il vento,
le campane continuano a suonare.
Il terremoto del 1923 a Tokyo e nel Kantō è stato uno dei peggiori sismi al mondo nel Ventesimo secolo, con un totale di circa 100.000 morti solo nella capitale giapponese, che all’epoca contava circa 4 milioni di abitanti. Il sisma è stato seguito da giorni di incendi che hanno distrutto le case che erano rimaste in piedi. In seguito, alcuni cittadini e la polizia hanno preso le armi in una virulenta reazione razzista contro la l’odiata minoranza coreana che viveva in città, accusata di sfruttare il caos del terremoto per organizzare una sedizione. Alla fine vennero uccisi circa 6.000 coreani e coreane, molti dei quali a colpi di spada o con pali di bambù.
Il celebre regista Akira Kurosawa, che aveva 13 anni al momento del sisma e potrebbe aver attinto da queste scene anarchico-apocalittiche per film come Rashomon e I sette samurai, descrive le rovine della città nelle sue memorie del 1983, intitolate Una sorta di autobiografia (Something Like an Autobiography):
«L’intero distretto di Edogawa era velato in una polvere danzante, il cui grigiore vorticoso dava al sole un pallore come durante un’eclissi. I sopravvissuti sembravano profughi dell’inferno e tutto il paesaggio aveva assunto un aspetto bizzarro e misterioso.»
Inventare mostri per cercare di spiegare o fare i conti con le catastrofi naturali ha radici profonde nella cultura giapponese. Ad esempio il “Namazu“, una figura leggendaria e un soggetto popolare di molte stampe, è un pesce gatto gigante che vive sottoterra e provoca i terremoti con i fruscii della coda. Il nemico di Namazu è Kashima, o Takemikazuchi, una divinità del pantheon shintoista che cerca di opporsi ai terremoti e di limitare i danni. I terremoti sono stati anche spiegati con uno squilibrio di forze tra yin (acqua) e yang (il fuoco) all’interno della terra.
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