La Guerra del Vietnam, un conflitto che non abbiamo capito
Nell’immaginario occidentale, Vietnam fa rima con Guerra. Praticamente tutti ricordano l’immagine della bambina nuda che corre col corpo ustionato dal napalm, come anche quella dell’ufficiale della Repubblica del Sud Vietnam in mezzo a una strada di Saigon che spara in testa a un viet cong con le mani legate (sopra). Immagini altrettanto celebri sono quella dell’ultimo elicottero dei marines che si alza dal tetto del palazzo della CIA (non dell’ambasciata americana), lasciando a terra centinaia di vietnamiti disperati, e quella del carrarmato di fabbricazione russa che sfonda il cancello del Palazzo presidenziale, oggi Palazzo della Riunificazione. Quest’ultimo scatto risale al 30 aprile del 1975, lo stesso giorno in cui le truppe dell’Esercito Popolare del Nord e quelle del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) entrarono vittoriose a Saigon, segnando la fine di quella che in occidente è denominata Guerra del Vietnam, ma che in questo Paese è definita semplicemente “Guerra Americana”.
La guerra più lunga del Ventesimo secolo — 10mila giorni — si conclude con la fuga degli statunitensi, una fuga apparentemente tragica e ridicola, precipitosa e disorganizzata, con cui abbandonarono al loro destino tanti di quei collaboratori vietnamiti che avevano promesso di salvare dai terribili comunisti. È stata anche una guerra fratricida che senza lo zampino americano non sarebbe mai nemmeno iniziata: gli accordi della Conferenza di Ginevra del 1954, che dividevano temporaneamente il paese all’altezza del diciassettesimo parallelo, dovevano essere seguiti da elezioni libere, elezioni che Washington e il dittatore di Saigon, Ngo Van Diem, non fecero svolgere, ben sapendo che avrebbero perso malamente. Il presidente USA Eisenhower scrisse qualche anno dopo:
«Non ho mai parlato con una sola persona esperta in affari indocinesi che non fosse d’accordo sul fatto che, se si fossero tenute le elezioni, probabilmente l’ottanta per cento della popolazione avrebbe votato per Ho Chi Minh».
Appoggiando il mandarino cattolico Diem e via via tutti gli altri dittatori di Saigon, gli Stati Uniti non fecero altro che compiere il loro dovere di “gendarme mondiale”, che in quel periodo storico coincideva col “salvare” gli altri popoli dal comunismo, un sistema di gestione della cosa pubblica decisamente sgradito alle amministrazioni americane. Il progressivo scivolamento di un numero sempre maggiore di Paesi verso sistemi di tipo sovietico era particolarmente temuto da Washington perché, come spiegato in modo chiaro nel 1955 da William Yandell Elliott, consulente di ben sei presidenti Usa, in The Political Economy of American Foreign Policy, quando un Paese diventa comunista inizia una trasformazione economica che “riduce la sua abilità di complementare le economie industriali dell’Occidente”, in sostanza diminuendo le oppurtunità per le aziende statunitensi di fare affari in quel Paese. Il “pericolo rosso” dunque non era tanto di tipo militare, come spesso si dava a bere all’opinione pubblica occidentale, ma di natura economica: minacciava di ridurre i guadagni del mondo degli affari. Ovviamente, di per sé un Paese contadino e arretrato come il Vietnam, che al tempo produceva solo riso, caffé, caucciù e qualche altro prodotto agricolo, non era un boccone particolarmente pregiato per le multinazionali nordamericane. Ma in piena Guerra Fredda, a guidare la politica estera americana era la domino theory (Teoria del Domino), in base alla quale si credeva che un’Indocina Rossa avrebbe finito per “infettare” il resto del Sudest Asiatico – Thailandia, Birmania, Malesia, Filippine e Indonesia – mettendo a rischio i veri interessi statunitensi (su tutti il petrolio).
L’anticomunismo degli anni ’50 e ’60 che ha portato all’escalation militare statunitense in Indocina era dunque una mera riedizione della politica estera adottata dagli anglo-americani negli anni ’20 e ’30 in Europa, quando l’ascesa dei regimi fascisti venne generalmente vista di buon occhio in quanto quei regimi, al contrario di quello sovietico, permettevano la penetrazione economica straniera, oltre a distruggere i tanto temuti movimenti dei lavoratori. Come nel 1933 il Presidente americano Franklin Delano Roosevelt definì Mussolini “uno stimabile gentiluomo italiano” e, ancora nel 1939, affermò di considerare il fascismo “di grande importanza per il mondo”, così i dittatori anticomunisti di Saigon, Bangkok, Giacarta, Manila e via dicendo, ricevettero per decenni la stima e l’appoggio politico, economico e militare di Washington, soprattutto quando s’impegnavano a massacrare comunisti, come nel Vietnam del Sud alla fine degli anni ’50, o come in Indonesia nel biennio 1965-66 – quando, con la complicità dell’ambasciatore USA e della CIA, i militari assassinarono tra 500mila e un milione di membri e simpatizzanti del Partito Comunista d’Indonesia. Fu dunque per “anticomunismo” nel senso appena descritto che l’America iniziò un conflitto lungo più d’un decennio che costò la vita a sessantamila soldati statunitensi — tremila dei quali minorenni o appena diciottenni — oltre che a 2 o 3 milioni di vietnamiti e un altro milione o due di cambogiani e laotiani.
Ma gli Stati Uniti, pur forti dell’esercito più avanzato al mondo, che in 10 anni di intervento diretto fece piovere su questo paese del sudest asiatico più bombe di quante non ne avesse sganciate sulla Germania e sul Giappone in tutta la seconda Guerra mondiale, non riuscirono ad avere la meglio contro la “Guerra di Popolo” vietnamita. Infine, pressati dall’opinione pubblica interna e internazionale che criticò quella guerra come mai prima nella storia, furono costretti al ritiro. E così quel 30 aprile di 35 anni fa il mondo intero sembrò celebrare la definitiva cacciata degli americani dal suolo vietnamita. Ma nonostante la bella libertà di stampa presente in quegli anni negli Stati Uniti fece sì che quel conflitto sia stato riportato dai corrispondenti esteri e seguito dall’opinione pubblica mondiale meglio di ogni altra guerra, col senno di poi Richard Nixon non aveva tutti i torti quando affermava che “nessun evento della storia americana è stato più incompreso della Guerra del Vietnam”. Cosa ironica se non fosse tragica, se non altro per le enormi sofferenze che quel conflitto ha causato, senza considerare il fatto che in occidente una generazione intera si è “politicizzata” proprio scendendo in strada contro l’intervento americano.
Questa mancanza di comprensione è imputabile alle modalità con cui il Vietnam è entrato a far parte della coscienza collettiva della maggioranza degli occidentali. Da una parte, immediatamente dopo la caduta di Saigon e per almeno un decennio, la CIA, la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato, il Congresso, il mondo dell’università e persino il movimento pacifista hanno come voluto dimenticare questa guerra. D’altronde, tutti erano concordi sul fatto che non sarebbe mai esistito un altro Vietnam. Dall’altra parte però Hollywood, il principale organo di creazione dell’opinione pubblica statunitense (ma anche europea, dato che ciò che Hollywood crea oggi, il resto del mondo berrà domani), ha prodotto una serie infinita di film sul Vietnam. Una lista incompleta include Good morning, Vietnam; Platoon; Full Metal Jacket; Rambo; Hamburger Hill; Missing in Action; Saigon; Il cacciatore; Giardini di pietra; The Hanoi Hilton; Nato il quattro luglio; Apocalypse Now. Alcuni di questi film sono capolavori della storia del cinema, altri filmetti di serie B. Alcuni insistono sulla linea dell’avevamo-ragione-noi, mentre altri sono contro la Guerra, anti-establishment o addirittura anti-americani. Nonostante le tante differenze, c’è però un aspetto che li accomuna: sono tutti film sugli americani. Nessun film parla dei vietnamiti, che rimangono personaggi di secondo piano, sullo sfondo, mimetizzati nelle foreste a tendere imboscate. A lavorare, testa bassa, nei campi di riso. A prostituirsi per pochi dollari in una Saigon indistinguibile da Bangkok (dove per forza di cose sono state girate molte scene). A procurare droghe ai giovani soldati americani. A crepare come mosche sotto i colpi di coraggiosi marines. Non a caso il personaggio vietnamita più approfondito psicologicamente è probabilmente il comandante comunista della prigione soprannominata “Hanoi Hilton”, dove venivano rinchiusi i piloti statunitensi abbattuti durante i bombardamenti nel Nord: una sorta di psicopatico che nello spettatore medio non può che destare disprezzo, insieme alla compassione per i poveri boys prigionieri. Nonostante questa lacuna, nonostante cioé la sostanziale e paradossale assenza dei vietnamiti nei film sul Vietnam, sono queste le immagini e le storie che ci saltano in mente quando pensiamo al Vietnam, immagini e storie di ragazzi, reporter, soldati e generali… tutti rigorosamente americani. A volte, addirittura, “Vietnam” è una “sindrome” (americana, ovviamente), una sorta di vigliaccheria collettiva dell’opinione pubblica, una malattia che ha come sintomo un certo fastidio per crimini di guerra e atrocità varie, e che quindi ha modificato in senso meno interventista la politica estera statunitense, cosicchè per più di 25 anni gli inquilini della Casa Bianca non hanno potuto inviare truppe di terra negli interventi armati statunitensi in giro per il mondo. E basta. “Vietnam” non è mai un luogo, un Paese, un popolo, un’identità, una cultura, una storia. Nessun film analizza mai le ragioni dei guerriglieri che combattevano il governo di Saigon e gli americani, come nessun soldato del Nord ha mai l’onore di essere compatito per essere stato prelevato da una risaia, una fabbrica, un’università, una casa o una famiglia e sbattuto in un campo di battaglia. Allo stesso modo, nessun contadino del Sud ha mai ispirato un film sulla tragedia delle foreste e dei campi distrutti dagli agenti chimici della Monsanto, dei villaggi rasi al suolo dagli elicotteri Apache e delle famiglie ammazzate senza pietà da uomini arrivati dall’altra parte del mondo. Nessun film americano ha mai trovato interessante cercare di capire perché i vietnamiti hanno ritenuto necessario e morale combattere per decenni, morire a milioni, vivere come talpe in tunnel sotterranei o come bestie in foreste malsane allo scopo di resistere al Golia americano. E dire che ne sarebbero venuti fuori film di altrettanto successo — dopotutto, i vietnamiti avevano ragioni migliori per fare ciò che facevano e le loro storie non furono meno tragiche.
Oggi, a decenni dalla fine di quella Guerra, vanno fatte almeno due osservazioni. Da una parte, va sottolineata la mancanza di volontà — o forse l’incapacità — statunitense di comprendere il nemico, la sua convinzione o presunzione di poterlo sconfiggere solo con la forza. A riprova, è sufficiente ricordare le assurde considerazioni di Robert McNamara, che riteneva che i soli raid aerei sul Vietnam del Nord sarebbero stati sufficienti a convincere Ho Chi Minh alla resa. O, ancora, come la stragrande maggioranza dei diplomatici americani inviati a Saigon venissero selezionati anche sulla base della loro ottima conoscenza della lingua francese, abilità che permetteva loro di conversare con gli esponenti delle famiglie benestanti sudvietnamite, ma certo non di comprendere la cultura di un Paese dove la stragrande maggioranza della popolazione, di estrazione contadina, non parlava altro che il vietnamita — e spesso solo le sue varianti regionali. In conclusione, nonostante siano ormai emersi innumerevoli documenti, siano stati scritti centinaia di libri e raccolte migliaia di testimonianze, va osservato che, se non si sono ancora volute analizzare e spiegare all’opinione pubblica le vere ragioni che hanno portato all’intervento americano, come le ragioni e la weltanschauung di chi combatteva contro gli americani, difficilmente si potrà sperare di comprendere le motivazioni degli altri interventi militari statunitensi, quelli di oggi e quelli di domani, né tantomeno le ragioni di chi continua a prendere le armi contro l’Occidente.
Di Alessio Fratticcioli (scritto per L’Internazionale di Micropolis, 2/12/2010)
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