Obama non ha avuto neanche il tempo di digerire la sconfitta elettorale che e’ partito per un lungo tour asiatico che lo porterà in India, Indonesia, Corea del Sud e Giappone. Perché questa fuga? E’ tutt’altro che una fuga, spiega Rampini in un articolo del 4 novembre,
ma un tentativo di misurarsi con l’impasse della crisi economica, cioè proprio la causa della disfatta elettorale democratica. Obama sa che l’America ormai è una potenza dimezzata, non può illudersi di trascinarsi da sola fuori dal tunnel della recessione.
Ha ragione Rampini? Ha ragione in pieno, tant’e’ vero che il giorno seguente lo stesso Presidente Obama, in un articolo sul NYT del 5 novembre, spiega:
Ora che gli USA si stanno riprendendo dalla recessione, l’errore più grande sarebbe quello di ricostruire l’economia sulla stessa pila di debiti o sui profitti di carta della speculazione finanziaria. Abbiamo bisogno di ricostruire delle fondamenta nuove e piu’ forti per la crescita economica.
E quali sono queste fondamenta? Per Obama l’America deve “essere conosciuta non solo per quello che consuma, ma per quello che produce”. E questa produzione va esportata. Anzi, Obama pone un ambiziosissimo obiettivo di “raddoppiare le esportazioni in cinque anni”.
E esportare dove? In Asia, naturalmente. I due miliardi e mezzo di cinesi e indiani, insieme ai 600 milioni di abitanti del Sudest Asiatico, rappresentano un enorme mercato emergente che gli Usa di Obama cercheranno di inondare dei loro prodotti per ridurre il debito americano e stimolare una crescita più sana.
Per Washington esistono due Asie. In una Obama può permettersi di mandare i suoi generali e le sue portaerei, ma in un’altra e’ costretto a recarsi di persona e sfoggiare il meglio delle sua diplomazia, magari esibendosi in inchini imbarazzanti e col cappello in mano.