Il passare del tempo non inficia l’importanza storica dell’impresa italiana in Africa Orientale
La guerra d’aggressione voluta da Mussolini, portata avanti con bombardamenti sulla popolazione civile e con l’utilizzo di gas in violazione della Convenzione di Ginevra, rimane una delle pagine più nere della nostra storia moderna. Ecco i costi umani e materiali di un’impresa senza senso
(Asiablog.it) — All’alba del 3 ottobre 1935, le truppe italiane invadono l’Etiopia, scatenando la seconda guerra italo-abissina. A guidare l’aggressione, pianificata e decisa già nel 1932 su ordine del Presidente del Consiglio Benito Mussolini, c’è il generale Emilio De Bono.
COLONIALISMO ITALIANO – Nelle intenzioni dei colonialisti italiani la creazione di un impero d’oltremare avrebbe rappresentato una soluzione ai gravi problemi economici della penisola, che minavano il prestigio del regime. In particolare, la conquista di nuovi territori e la creazione di un Impero avrebbe offerto una valvola di sfogo al sovraffollamento (reale o immaginario) dello Stivale, incanalando l’emigrazione italiana verso una colonia italiana piuttosto che lasciarla disperdere in Europa, America o Australia.
PERCHÉ L’ETIOPIA — La preda venne scelta per motivi molto banali. Nel 1935, l’Etiopia era uno dei pochi paesi africani indipendenti, cioè non ancora colonizzato da una potenza europea. Confinante con le colonie italiane di Eritrea e Somalia, l’Etiopia costituiva da tempo una delle principali mire imperiali di Mussolini, che la considerava un boccone decisamente più semplice da fagocitare rispetto alle tante terre che i nazionalisti ritenevano ancora “irredente”, da Nizza alla Dalmazia, passando per la Savoia, la Corsica e Malta. A motivare Mussolini e le gerarchie militari italiane c’era anche la volontà di “vendicare” la cocente sconfitta nella prima guerra d’Abissinia, nel 1896, che costò la vita a circa 11.000 soldati italiani, e che nell’immaginario degli ambienti ultranazionalisti veniva considerata una delle pagine più nere della storia patria. (Noi italiani, “popolo di eroi” e “di colonizzatori,” sconfitti da una tribù di “negri” con gli anelli al naso. Pensate un po’).
VITTORIA MUTILATA – Per tutto il 1935, l’esercito italiano rafforzò la sua presenza militare lungo il confine dell’Etiopia, mobilitando decine di migliaia di soldati, artiglieria e forze aeree. Alla vigilia dell’invasione, il 2 ottobre, Mussolini annunciò la dichiarazione di guerra all’Etiopia con un discorso pieno di demagogia nazionalista, davanti alla consueta folla plaudente di camicie nere riunite sotto Palazzo Venezia a Roma.
“L’ora solenne sta per scoccare!” – gridò il dittatore alla folla in delirio. “Questa manifestazione vuole significare che l’identità tra Italia e fascismo è perfetta, assoluta e inalterabile.”
Successivamente, rispolverando i temi dannunziani della “Vittoria Mutilata,” Mussolini ricorda ai popoli di Gran Bretagna e Francia i sacrifici – a suo avviso non adeguatamente ricompensati – sopportati dagli italiani durante la Grande Guerra (Prima Guerra Mondiale). L’intenzione era quella di presentare l’invasione dell’Abissinia come una sorta di riparazione per la violazione del Patto di Londra. Non ci avete dato (tutta) la Dalmazia, quindi noi ci prendiamo l’Etiopia. Questo il ragionamento, se così si può dire, del dittatore romagnolo.
OPERA CIVILIZZATRICE —L’episcopato italiano si schierò con il Fascismo a favore della guerra e del colonialismo, presentando l’impresa del Duce come una crociata, un’opera civilizzatrice ed evangelizzatrice a beneficio dei “barbari” africani. Questo nonostante l’esportazione della civiltà in Abissinia fosse, ovviamente, solo l’ultima delle preoccupazioni del regime. Ad ogni modo, tra i meriti dell’imperialismo italiano va ricordato che, dopo la carneficina della guerra, una delle prime decisioni assunte dal generale Emilio De Bono sul territorio abissino appena soggiogato fu l’abolizione della schiavitù, il 14 ottobre 1935.
ARMI BATTERIOLOGICHE –
Tra i crimini di guerra italiani in Etiopia, il più noto è l’utilizzo dei gas, vietati dalla Convenzione di Ginevra del 1925. La responsabilità dell’uso di tali ordigni è attribuita direttamente a Benito Mussolini, che in diversi ordini telegrafati ai comandanti al fronte ne autorizzò l’uso in caso di estrema necessità. Ad esempio, il 27 ottobre 1935, il generale Rodolfo Graziani, mentre stava per attaccare la piazzaforte di Gorrahei, riceveva questo telegramma da Mussolini: «Sta bene per azione giorno 29. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco».
Gli storici tuttavia non sono concordi sulla quantità di gas utilizzati: sono stati utilizzati su larga scala oppure in maniera modica, eccezionale e limitata ad alcune aree? Ad esempio, nel libro Faccetta nera: Storia della conquista dell’impero lo storico Arrigo Petacco sostiene che i bombardamenti con gas erano attuati “non con tale frequenza da poter sensibilmente mutare il corso della guerra”. Di diverso avviso è Angelo Del Boca in studi quali Italiani, brava gente? e La guerra di Etiopia. L’ultima impresa del colonialismo, secondo il quale i bombardamenti furono continui e devastanti. Gli italiani bombardavano anche il bestiame ed i corsi d’acqua, sostiene lo storico, al fine di far mancare agli etiopi, sia ai soldati che alla popolazione civile, ogni tipo di sostentamento. I numeri forniti da Del Boca furono ripresi nel 1996 dalla relazione del generale Domenico Corcione, allora ministro della Difesa del governo Dini. Corcione riferì al Parlamento che gli italiani sganciarono in Etiopia circa 85 tonnellate di iprite con bombe da aereo, nonché proiettili di artiglieria caricati ad arsine e vescicanti. Di fronte alla resistenza degli etiopi, Mussolini non esitò ad approntare anche un fornito arsenale di aggressivi batteriologici (bombe caricate con i bacilli del colera, del tifo, della dissenteria bacillare) stoccato nel deposito di Sorodocò in Eritrea, accanto a 6170 quintali di aggressivi chimici.
Un ennesimo crimine di guerra commesso dagli italiani si verificò il 30 dicembre 1935 con il bombardamento di Malca Dida, eseguito secondo gli espliciti ordini del generale Graziani. Il bombardamento distrusse un ospedale da campo svedese con i contrassegni della Croce Rossa, provocando la morte di 28 ricoverati e di un medico svedese. La notizia fece il giro del mondo, sollevando lo sdegno internazionale. Paradossalmente, nonostante l’uso di ogni tipo di arma, lecita e illecita, i combattimenti durarono ben sette mesi. L’Italia avanzò lentamente, troppo lentamente per le esigenze della propaganda fascista, tanto che Mussolini decise di sostituire il generale De Bono con Pietro Badoglio.
SANZIONI INTERNAZIONALI – Invadendo uno stato poverissimo ma indipendente, difeso da un esercito dotato di armi obsolete ma membro, come l’Italia, della Società delle Nazioni, il governo di Roma aveva violato l’articolo XVI dell’organizzazione medesima:
“se un membro della Lega ricorre alla guerra, infrangendo quanto stipulato negli articoli XII, XIII e XV, sarà giudicato ipso facto come se avesse commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le relazioni commerciali e finanziarie, alla proibizioni di relazioni tra i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e all’astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di qualsiasi altro paese, membro della Lega o no”.
Per questo motivo, la Società delle Nazioni, espressione principalmente della volontà della Francia e del Regno Unito (i due stati più forti ed influenti nonché le maggiori potenze vincitrici della Grande Guerra), condannò Roma imponendo delle sanzioni economiche. Le sanzioni risultarono però sostanzialmente inefficaci, anche perché numerosi Paesi, pur avendole votate ufficialmente, mantennero buoni rapporti con l’Italia, rifornendola di materie prime. Inoltre, le sanzioni non riguardavano materie di vitale importanza, come ad esempio il petrolio.
VERSO LA CATASTROFE — Nonostante l’inefficacia delle sanzioni, la guerra d’Etiopia rappresentò una svolta fondamentale nell’evoluzione della dittatura fascista e della politica internazionale dell’Italia tra le due guerre, in quanto provocò l’allontanamento di Roma dalle potenze occidentali e il riavvicinamento con la Germania hitleriana. Non si trattava di una cosa scontata, in quanto la Germania fino ad allora, e soprattutto dopo l’assassinio del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss nel luglio 1934 — alleato e amico personale di Mussolini — e la conseguente destabilizzazione dell’Austria, che preparava la strada all’Anschluss del 1938, era considerata dal Duce come il principale pericolo per la sicurezza nazionale ed europea.
In chiave del tutto ucronistica, senza la guerra d’Etiopia è possibile immaginare un decennio 1935-1945 diametralmente opposto: con il persistere delle tensioni tra Roma e Berlino, la neutralità italiana durante il conflitto mondiale, o addirittura la sua partecipazione a fianco degli Alleati, e, a guerra finita, la conseguente emersione dell’Italia come grande potenza europea e mondiale. Non andò così: la disgraziata impresa abissina fu l’inizio della fine, il preannuncio della catastrofe.
L’ETIOPIA E’ ITALIANA – Il 5 maggio 1936, le truppe di Badoglio entrarono nella capitale Addis Abeba segnando la capitolazione abissina e la creazione dell’Africa Orientale Italiana. Di nuovo a Palazzo Venezia, Mussolini dichiarò:
Camicie nere della Rivoluzione, uomini e donne di tutta Italia, Italiani e amici dell’Italia, al di là dei monti e al di là dei mari: ascoltate. Il Maresciallo Badoglio mi telegrafa: «Oggi 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba». Durante i trenta secoli della sua storia l’Italia ha vissuto molte ore memorabili, ma questa di oggi è certamente una delle più solenni. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la guerra è finita. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la pace è ristabilita. Non è senza emozione e senza fierezza che, dopo sette mesi di aspre ostilità, pronuncio questa grande parola, ma è strettamente necessario che io aggiunga che si tratta della nostra pace, della pace romana che si esprime in questa semplice, irrevocabile, definitiva proposizione: l’Etiopia è italiana.
L’Etiopia resterà italiana per pochissimi anni, ma le conseguenze dell’aggressione saranno pesanti e la vergogna per i crimini commessi rimane indelebile.
Per conquistare un Paese poverissimo e strategicamente pressoché inutile, Mussolini sacrificò almeno 4.350 vite italiane bruciando 40 miliardi di lire di denaro pubblico.
Per l’Etiopia, la tragedia fu di proporzioni persino maggiori. Le stime italiane parlano di 40-50 mila abissini uccisi sul fronte nord e 15-20 mila a sud. Le fonti etiopi, invece, suggeriscono una cifra spaventosa: 275 mila morti, civili compresi.
Il costo materiale della guerra, secondo un documento ufficiale etiopico, è stato di 26.813.155 sterline. A questa cifra va aggiunto il bestiame distrutto: 5 milioni di buoi, 7 milioni di ovini, 1 milione di cavalli e muli, e 700 mila cammelli per un valore di 44 milioni di sterline. Altri 2 milioni di sterline sono andati in fumo insieme alle 2.000 chiese bruciate dagli italiani e ai libri e dipinti andati perduti. Si stimano in 10 milioni e mezzo di sterline i danni delle 525 mila case e capanne distrutte. Questa fu la realtà dietro alla propaganda del regime di Mussolini.