Presidente Usa in Asia per celebrare il traumatizzante ma inevitabile declino della leadership americana
Okinawa e’ una bellissima isola subtropicale situata all’estremita’ meridionale dell’arcipelago giapponese, caratterizzata da spiagge bianche, una cultura unica che deve molto alla Cina e la presenza degli esseri umani mediamente piu’ longevi del pianeta. Okinawa e’ piu’ vicina all’isola di Taiwan, alla costa della Cina e alla Corea che a Tokyo, la capitale nipponica. E’ per questa ovvia importanza strategico-militare che gli Stati Uniti d’America, dopo averla conquistata nelle ultime settimane della seconda guerra mondiale con la celebre Battaglia di Okinawa, vi hanno istallato una serie di importanti basi militari, tra le quali quella di Futenma e’ la piu’ grande. Questa base dei Marine occupa un quarto della superficie della cittadina di Ginowan, nella parte meridionale di Okinawa. Ancora oggi, dopo piu’ di 60 anni dalla fine del conflitto mondiale e dopo 49 anni dalla stipulazione del Trattato di Sicurezza e Mutua Cooperazione tra Tokyo e Washington, i turisti giapponesi a mollo nelle tiepide acque di Okinawa sono costretti ad ammirare le maestose portaerei americane a largo della costa, mentre normali cittadini devono convivere 365 giorni l’anno con il frastuono e l’inquinamento prodotto dagli aerei e dagli elicotteri che passano quotidianamente sulle loro teste. E talvolta cadono.
UN PO’ DI STORIA – L’isola di Okinawa fu occupata dagli Stati Uniti dal 1945 al 1972, rappresenta solo lo 0,6% della superficie del Giappone e vi risiedono meno dell’1% dei cittadini giapponesi. Nonostante questo, l’isola ospita ancora ben 14 basi militari statunitensi, che occupano a pelle di leopardo circa un quinto della supercifie dell’isola. In totale, piu’ della meta’ dei circa 35mila soldati americani presenti nel “Paese del Sol Levante” sono a Okinawa. Nel 2006Washington e Tokyo trovano un accordo per trasferire la base Futenma dal centro diGinowan alla Baia di Henoko, nella cittadina costiera di Nago, situata nella parte settentrionale dell’isola, meno popolata. Ma l’eventuale costruzione di una nuova base in quella localita’ ha destato non poche preoccupazioni dal punto di vista ambientale. La costruzione della nuova base avverrebbe su una barriera corallina e su distese di piante marine che costituiscono l’habitat del dugongo, un mammifero acquatico simile al lamantino e in via d’estinzione.
OKINAWA SI’, OKINAWA NO – Anche per queste preoccupazioni il neo-primo ministroYukio Hatoyama – il leader del Partito Democraticogiapponese, che per la prima volta nella storia lo scorso settembre ha conquistato il governo del paese – in campagna elettorale ha promesso che avrebbe ripensato l’accordo del 2006 in modo da far trasferire la baseFutenma fuori daOkinawa; e forse addirittura fuori dalGiappone.Hatoyama ha spiegato che la sua decisione va letta in un quadro di ricerca di relazioni piu’ eque e meno servili con lo storico alleato nordamericano. ”Il nuovo governo giapponese ha tutto il diritto di riconsiderare gli accordi presi da quello precedente“, ha dichiarato la settimana scorsa il Presidente statunitense Barack Hussein Obama durante la sua prima visita nel Sol Levante. Allo stesso tempo, pero’,Obama ha suggerito con fermezza al governo democratico di Hatoyama di continuare a permettere alle truppe americane di utilzzare le basi militari di Okinawa. Il Nobel per la Pace ha dichiarato che avere un consistente numero di truppe statunitensi in un punto cosi’ strategico e’ “innanzitutto nell’interesse giapponese”.
INCIDENTI E PROTESTE – Ma evidentemente buona parte dei cittadini di Okinawa non la pensano allo stesso modo, visto che da decenni protestano contro questo stato di cose, che considerano ingiusto. Secondo un sondaggio svolto nel 2007 dall’Okinawa Times, l’85% degli isolani e’ contrario alla presenza militare americana nell’isola. Da decenni si ripetono manifestazioni di protesta. Secondo un documento della Camera dei Rappresentantigiapponese, dal 1952 al 2004 i militari statunitensi in Giappone si sarebbero resi responsabili di 200mila incidenti e crimini, nei quali avrebbero perso la vita 1076 civili giapponesi. Uno dei casi piu’ infami e che piu’ ha disgustato l’opinione pubblica nipponica e’ stato lo stupro di una bambina 12enne da parte di tre Marine statunitensi, nel 1995. Crimini, incidenti e inquinamento sono gli argomenti principali utilizzati dai cittadini di Okinawa, che anche in coincidenza con la visita di Obama sono scesi nuovamente in piazza in decine di migliaia per protestare contro la presenza nordamericana e in particolare contro il piano per la costruzione della nuova base. Ha partecipato alla manifestazione anche Yoichi Iha, il sindaco di Ginowan, che ha chiesto al primo ministro Hatoyama di “dire al Presidente Obama che Okinawa non ha piu’ bisogno di basi americane”.
OPPOSTE VISIONI – In realta’, la spinosa questione della base Futanma e’ ancora piu’ complessa di quanto sembri e va inserita in un quadro piu’ ampio. Lo stesso governo Hatoyamanon si e’ espresso con una voce univoca, riflettendo la realta’ del dibattito in corso inGiappone sul future delle sue relazioni internazionali e della sua storica alleanza con gli USA. Semplificando, in campo ci sono due opposte visioni. La prima e’ quella conservatrice, che vorrebbe continuare sulla linea seguita dal dopoguerra (o meglio dalla fine dell’occupazione statunitense nel 1952) ad oggi. In questi ultimi 60 anni le relazioni nippo-americane sono state solo formalmente eque. In realta’, dal punto di vista di Washington, nemmeno l’inumana umiliazione delle bombe atomiche, con la susseguente capitolazione totale giapponese, la sua totale occupazione e la suaCostituzione praticamente scritta dal Comandante supremo delle forze alleate in Giappone Doulas MacArthur sono bastate a vendicare l’onta dell’attacco di Pearl Harbor – che tra l’altro alcuni storici ritengono sia stato benvoluto da Roosevelt, che andava cercando un buon pretesto per entrare in guerra. Fatto sta’ che dal dopoguerra ad oggi il Giappone e’ stato l’”Inghilterra d’Oriente”, il migliore alleato statunitense nella regione, utilizzato da Washingtoncome base operativa per il contenimento di Russia e Cina. In cambio, Truman, Eisenhowere via via le altre amministrazioni americane negli anni ’50, ’60 e ’70 hanno favorito la crescita economica giapponese, vero e proprio motore della regione Asia-Pacifico. Dopo un periodo di frizioni negli anni ’90, quando Washington ha iniziato a temere che la continua crescita economica giapponese potesse divenire pericolosa, i rapporti bilaterali si sono di nuovo rinsaldati, soprattutto inchiave anti-cinese. La visione conservatrice vorrebbe continuare sulla linea di questo tipo di partnenariato, che si e’ dimostrato positivo per Tokyo sia dal punto di vista economico che della sicurezza.
E’ ORA DI CAMBIARE – La seconda visione, definibile “progressista”, vede l’alleanza e i trattati tra USA e Giappone come sostanzialmente ineguali. In generale, questa visione non nega che la presenza delle truppe americane abbia contribuito alla stabilita’ della regione, ma sostiene che la situazione regionale e internazionale e’ oramai completamente differente da quella di 60 anni fa o solo di 10 anni fa, ragion per cui e’ giunta l’ora di aprire una stagione di cambiamento. Secondo i progressisti, pur continuando a coltivare le relazioni con Washington come la pietra angolare della politica estera nipponica, Tokyo dovrebbe finalmente farla finita con l’esssere lo yes-man dello zio Sam e “riorientare” le sue alleanze verso l‘Asia, smettendola di considerare i suoi ingombranti vicini russi e cinesi come delle minacce, ed iniziando invece a coltivarli come dei partner sempre piu’ affidabili e con sempre maggiori interessi in comune. Inoltre, ricalibrando le sue alleanze, il Giappone andrebbe incontro anche a quelle che appaiono le sfide globali del Ventunesimo secolo. Questioni aperte come la stabilizzazione di paesi fragili come l’Iraq e l’Afghanistan, i rapporti con governi scarsamente rispettosi dei diritti umani come ilMyanmar, le ambizioni nucleari di Iran e Corea del Nord e il riscaldamento climatico possono essere affrontate solo con strategie inclusive e multinazionali, in cui tutti i maggiori attori internazionali trovino un minimo comun denominatore.
CHI CI PERDE, CHI CI GUADAGNA – Per il momento, questo approccio ha portatoHatoyama a raggiungere un accordo temporaneo con Obama: ladecisione finale sulla baseFutanma sara’ preso solo dopo le elezioni locali del gennaio prossimo. Lo Yomiuri Shimbun, autorevole quotidiano conservatore giapponese, ha scritto che l’indecisione del governo Hatoyama sta erodendo la fiducia del prezioso alleato nordamericano. Questo e’ in parte vero, ma oggi la notizia e’ che chi ha piu’ da perdere da un’eventuale modifica dei rapporti tra Tokyo e Washington non sono affatto i giapponesi. Oramai, in una regione in cui l’influenza economica, politica e militare della Cina cresce sempre piu’ rapidamente, e’ per l’amministrazione Obama che le relazioni con il paese del Sol Levante sono piu’ cruciali che mai. Questa rimessa in discussione dei rapporti di forze tra le maggiori potenze globali, che segue inevitabilmente lo sballato unilateralismo dell’amministrazione Bush, e’ stata ulteriormente chiarita dalla fermata cinese del tour asiatico di Obama e sancita dalla dichiarazione congiunta diramata dopo il suo incontro con il leader piu’ potente del pianeta: Hu Jintao, segretario generale del Partito Comunista cinese e presidente della Repubblica Popolare Cinese.
LA POLVERE SOTTO IL TAPPETO ROSSO – In quel documento si parla di “partnership strategica” (quasi un’alleanza) tra Washington e Pechino. Come spiega Francesco Sisci suLa Stampa, “dietro questa formula c’è […] l’assicurazione che gli Usa non tenteranno di fermare la crescita economica e politica cinese con azioni sovversive interne o contenimenti esterni.” Inoltre, il documento riconosce le differenze storiche tra Occidente e Estremo Oriente riguardo al concetto di “diritti umani”. Cio’ significa che Pechino non dovra’ piu’ temere nemmeno le critiche verbali di Washington, se non sotto forma di parole estremamente vaghe. E difatti gli atti piu’ “liberali” dell’Obama asiatico sono stati quando ha risposto alle domande di alcuni studenti universitari (accuratamente scelti dal partito tra i piu’ fedeli alla linea) e quando ha speso una mattinata a farsi intervistare da un giornalista diSouthern Weekly, che gli ha chiesto se “trova ancora il tempo di giocare a basket ora che e’ Presidente”. (Intervista giudicata completamente inutile dal dissidente cinese Michael Anti). Per il resto, Obama a Pechino si e’ ben guardato di discutere seriamente l’argomento della liberta’ e dei diritti umani, non ha cercato di andare a messa come fece Bush per sollevare il problema della liberta’ religiosa, non ha cercato di incontrare qualche dissidente perseguitato, non ha accenato alla difesa di Taiwan ne tantomeno al Tibet e non ha fatto cenno alle probabili esecuzioni, eseguite a fine ottobre, di alcuni tibetani arrestati l’anno scorso a Lhasa in seguito alle proteste contro l’occupazione cinese. Tutti argomenti che Obama ha letteralmente spazzato sotto il tappeto rosso steso ai piedi di Hu Jintao, il leader di una superpotenza che oggi gli Stati Uniti non possono assolutamente permettersi di avere contro. “L’ultima ironia poi”, scrive sempre Francesco Sisci, e’ “che questo girotondo sui diritti umani è stato condotto dal presidente più liberal della storia degli Usa.” “In cambio di questo la Cina riconosce gli interessi geopolitici americani in Asia […] In concreto, questo porta la Cina a fare due aperture importanti su due temi scottanti per Washington, l’Iran e l’Afghanistan”.
NON E’ TUTTO ORO… – E’ molto poco per gli Stati Uniti, ma in questa congiuntura storica ed economica e’ tutto quello che possono ottenere. Il New York Times ha fatto notare che, grazie al suo primo viaggio in Asia,Obama ha senza dubbio capito che la sua popolarita’ tra la gente (e’ stato accolto un po’ ovunque come una star, piu’ che come un Presidente) “non si traduce automaticamente in successi diplomatici negli incontri a porte chiuse nella Kantei (la Casa Bianca giapponese). Senza parlare della Grande Sala del Popolo di Pechino.” “La Cina è stata irremovibile – osserva sempre il New York Times – Obama ha scoperto una superpotenza in ascesa che è ben decisa a dire no agli Stati Uniti”. Ancora più duro il Washington Post: “Obama torna dalla Cina senza risultati sui dossier importanti, dal nucleare iraniano alla rivalutazione del renminbi. E’ poco per un presidente che fece campagna elettorale promettendo grandi cambiamenti nella diplomazia. L’unica cosa che è cambiata è il tono conciliante degli Stati Uniti”. Anche Timothy Garton Ash, sul britannico The Guardian, ammette che “la Cina ha ottenuto molto, Obama no.”
PASSAGGIO DI CONSEGNE – In poche parole, il primo viaggio in Asia di Obama potrebbe essere stato solamente un passaggio di consegne tra l’America e l’Asia. Al di la’ delle critiche spietate della stampa statunitense, che forse non riesce a digerire il traumatizzante ma inevitabile declino della leadership americana, e nonostante la simpatia e l’abile ars oratoria del primo Presidente afro-americano, il baricentro del potere mondiale potrebbe essere definitivamente slittato verso Pechino, con buona pace delle teste d’uovo del “Progetto per un nuovo secolo Americano”.
Scritto per Giornalettismo>>>>>
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