Mae Sot, confine thai-birmano. Un fiume dall’alveo largo una cinquantina di metri taglia monti, colline, poi radure e giungle. Ad un tratto questo fiume separa due cittadine, Mae Sot e Mywaddy (Myawadi), collegate dal “ponte dell’Amicizia”, che funge da frontiera tra Thailandia e Birmania.
Il fiume Moei sembra uno specchio d’acqua come tanti altri ma in realtà è il punto di congiunzione di due mondi, due universi. Da una parte c’è una delle nazioni più conosciute, ricche, turistiche e felici dell’Asia: la Thailandia. Le mille luci di Bangkok, le spiaggie e i villaggi turistici di Kho Samui, Krabi e Pukhet, le stupende Ayutthaya e Phitsalunok, la romantica Chiang Mai e infine Pai, il gioiellino incastonato tra i monti e le giungle del Nord-Ovest. Dall’altra parte di questo fiumiciattolo c’è la Birmania, che ufficialmente è chiamata Myanmar, forse il paese più povero, tragico, dimenticato e disperato di tutta l’Asia. Rispetto alla Thailandia, il Myanmar è 30 minuti di fuso orario avanti ma 50 o forse 100 anni indietro.
L’EMBARGO – In questa terra di confine oggi piove. Da maggio a ottobre i monsoni che arrivano da sud-est portano nubi cariche d’acqua. A volte sembra che l’intero golfo del Bengala salga in cielo per poi rovesciarsi sulle teste della gente. Anche il fiume Moei si ingrossa e si riempe d’acqua e fango. Ma ogni anno durante la stagione secca l’acqua si ritira e il fiumiciattolo si riempe di disperati che scappano dalla Birmania in cerca di fortuna. Durante tutto l’anno, trafficanti di ogni risma (di giada, rubini, gemme, zaffiri e altre pietre preziose, di tek o altri legni pregiati, di medicinali, di anfetamine, di armi) attraversano questo rigagnolo con barchette improvvisate nella speranza di guadagnare denaro in modi più o meno illeciti. Poverissimo, con un Pil pro capite di meno di mille dollari l’anno, penultimo paese asiatico nell’indice della libertà economica dopo la Corea del Nord e isolato da un ferreo embargo economico internazionale, il Myanmar non gode di troppi aiuti da parte delle organizzazioni umanitarie – anche perchè il regime proibisce l’accesso a molte zone del paese. Inoltre, il popolo birmano deve campare senza i dollari di quei turisti che boicottano il paese su richiesta della leader anti-regime Aung San Suu Kyi; in Myanmar arrivano solo 750mila turisti all’anno, contro gli oltre 10 milioni della Thailandia. Ma come succede praticamente ogni volta – da Cuba, alla Corea del Nord, all’Iraq di Saddam – gli embarghi danneggiano la popolazione e non scalfiscono il regime. Come se tutto questo non bastasse, in vaste aree del paese la popolazione è intrappolata tra l’inefficenza, la corruzione e la crudeltà della giunta militare, con i sui 400mila soldati, e la guerriglia dei vari gruppi armati che pescano i loro combattenti tra i più disperati, anche giovanissimi e bambini. Questa drammatica situazione genera un numero imprecisato di profughi, gente senza patria che rischia la vita per uscire da quello che è un paese bellissimo ma eccezionalmente povero, apparentemente senza alcuna prospettiva.
RICCO MA POVERO – Come può accadere tutto ciò? Nei giornali occidentali si legge spesso che la Birmania è abbandonata dal mondo. Non è esatto. Il regime birmano riceve armi e soldi, soprattutto dai cinesi, in cambio di risorse energetiche e delle pietre preziose della regione di Mogok. Altre armi arrivano da o attraverso Russia, Ucraina, Israele e Singapore. Pare che la Russia stia anche vendendo ai militari al potere in Myanmar un reattore nucleare — solo dicerie, probabilmente. Attraverso immorali triangolazioni, persino le industrie di armi europee fanno arrivare aerei e elicotteri nelle mani dei militari birmani, che poi ci radono al suolo interi villaggi di “insorti”. La situazione birmana fa comodo un pò a tutti, tranne che ai cittadini birmani, che vivono di stenti in una terra ricca di risorse. La Birmania ha immense foreste, miniere di diamanti, esporta due miliardi di euro di gas naturale ed è in una posizione geopolitica unica per controllare gli accessi terrestri verso l’India. Per la Cina avere il Myanmar come alleato significa guadagnare un porto d’accesso al Golfo del Bengala e quindi all’India. Pechino vuole utilizzare il Myanmar come una base operativa per sorvegliare tutto il traffico navale nell’Oceano Indiano. Un altro progetto faronico al quale stanno lavorando i cinesi è il gasdotto di 2.400 chilometri che trasporterà energia dalla costa occidentale birmana fino alla provincia cinese dello Yunnan. La cooperazione fra i due paesi include forniture di tecnologia bellica cinese per più di un miliardo di euro. Ma anche il governo indiano è consapevole dell’importanza del suo vicino orientale, e come i cinesi si tiene buona la Giunta fornendole armi e tecnologia militare. Ai militari birmani le armi servono a combattere alcune delle 130 minoranze etniche e per essere sicuri di poter schiacciare senza pietà ogni eventuale rivolta. Grazie alla presenza dei ribelli, la Giunta giustifica la sua esistenza, il suo pugno di ferro e la vendita delle risorse nazionali in cambio di armi. Grazie al crudele e corrotto governo dei militari, i guerriglieri giustificano la propria guerriglia, il traffico di droga e la vendita di legname pregiato ai commercianti di Bangkok. E intanto non solo Cina e India, ma anche Giappone, Thailandia e altri paesi fanno affari con la cricca birmana al potere. L’ipocrisia mondiale e gli affari di qualcuno sono la benzina che manda avanti questo anacronistico regime. Sulle rive del fiume Moei questi due mondi – violenza e crudeltà da una parte, ipocrisia e interesse dall’altra – si avvicinano, si guardano, si incontrano e in qualche modo si mescolano. Dalla parte thailandese è sorto un limbo, una sorta di villaggio improvvisato. E’ abitato da profughi birmani, la maggior parte dei quali lavora per 100 euro al mese in alcuni capannoni, delle fabbrichette, gestite da cinesi. Sembra che tutto sia in nero: i lavoratori birmani sono clandestini, l’imprenditore cinese non paga 1 baht di tasse, limitandosi ad oliare la polizia, e non esistono chiacchere come sicurezza sul lavoro e pagamento degli straordinari. Ma i lavoratori birmani hanno poco da lamentarsi: dall’altra parte del fiumiciattolo 100 euro al mese potrebbero solo sognarseli la notte.
SALE MASSAGGI/BORDELLI – Tra le viuzze della cittadina sono pochi i ragazzi che indossano jeans all’occidentale. Tutti – uomini e donne – vestono il sarong, che i birmani chiamano “lonji”, un lungo pezzo di cotone drappeggiato simile a una gonna o a un pareo. Tra calde zaffate di incenso e spezie, il mercatino di strada spaccia solo merce birmana, ben più economica di quella thailandese. Riso, verdura, pesce, braccialetti, anellini, orecchini, foglie di betel da masticare, prodotti cosmetici come il tanakha, una crema ricavata da una radice triturata che i birmani si spalmano sulle guance e a volte anche sul naso e sulla fronte. Ogni donna (e anche qualche uomo) ha le guance coperte di questa sostanza giallognola, che a queste latitudini è simbolo di bellezza e funge anche da protezione contro il sole. Ma per una ragazza birmana rifugiata in Thailandia la bellezza può essere pericolosa. Spesso ricchi signori thailandesi, soprattutto di etnia cinese, passano in questa terra di confine a fare shopping di ragazzine tra le orde di profughi che scappano dalla guerra e dai campi minati. Le famiglie delle ragazzine sono generalmente persone semplici, dall’istruzione minima, con un passato tragico nel loro paese e senza una visione chiara di come gira il mondo. Gli acquirenti promettono alle famiglie chissà che e offrono cifre irrinunciabili: qualche centinaio di euro. Le bambine e ragazzine birmane finiranno in uno dei tanti bordelli mascherati da sala massaggi. Piccole prostitute per pedofili asiatici e occidentali. (In teoria in Thailandia la prostituzione è proibita. In pratica nessuno ha interesse a tappare una miniera d’oro). Poche settimane fa due ragazze sono state trovate morte tra gli sterpi. Sembra siano state prima violentate e poi ammazzate. Per i birmani, ovviamente, il crimine è stato commesso da un gruppo di thailandesi. Per i profughi che arrivano dal Myanamar, i thailandesi sono ricchi, cattivi, sfruttatori, crudeli. Per i thailandesi, gli immigrati birmani sono troppi, sono dei barbari, sono sporchi e arrivano a rubare il lavoro. O il portafogli. Il fiume Moei divide due cittadine, due stati, due mondi. Ma forse tutto il mondo è paese.
Di Alessio Fratticcioli (scritto per Giornalettismo)